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Recensione: Colorful, Il giorno che sono diventato te

Buondì lettori, oggi ho il piacere di parlarvi di Colorful – Il giorno che sono diventato te della scrittrice giapponese Eto Mori, primo romanzo della serie DeAWave della DeAgostini, dedicata agli amanti della letteratura asiatica. Prima di iniziare a parlarvi del libro, ci tengo a ringraziare Yelena de La libreria di Yely per avermi coinvolta nel review party e la DeAgostini per l’opportunità e la copia.

La trama: Essere morti ha i suoi svantaggi: niente pomeriggi insieme agli amici, niente ramen, niente tramonti da ammirare abbracciati alla persona che si ama. Insomma, niente di niente. Si è solo un’anima senza corpo, in attesa della reincarnazione. A meno che… A meno che tu non abbia commesso un tremendo errore nella vita precedente. In tal caso, è tutta un’altra storia. Per te, il circolo delle rinascite è off limits, c’è solo il grande e oscuro vuoto. A volte, però, il Grande Capo ha voglia di giocare e indice la Prestigiosa Lotteria delle Anime. Perché non dare una seconda possibilità a quei disgraziati? dice lui. Al vincitore della lotteria viene concessa la possibilità di tornare sulla Terra in un nuovo corpo e con una missione precisa: porre rimedio agli errori del passato prima che il tempo concesso scada. Nessuno vorrebbe sprecare la sua unica seconda possibilità, ma è più facile a dirsi che a farsi, ve lo assicuro. Lo sa bene l’anima vincitrice di questa tornata della lotteria, a cui è capitato in sorte il corpo – e soprattutto la famiglia – di Makoto Kobayashi, un timido quattordicenne che si è appena suicidato. L’anima non ha la più pallida idea di cosa fare, ma, forse, scoprire il motivo che ha spinto Makoto a togliersi la vita potrebbe aiutarla a scoprire qualcosa di più anche su se stessa…

Se solo sotto questo letto ci fosse l’oceano, mi trovo a pensare. Se solo potessi continuare a sprofondare così, sempre più giù, per sempre…

Dopo aver vinto la lotteria delle anime, l’anima protagonista si reincarna nel corpo di Makoto. Guidata da Prapura, il suo angelo custode, l’anima dovrà cercare di non incasinare la vita del corpo che possiede, si ritroverà quindi a vivere con la famiglia del ragazzo, frequentare la sua scuola, compiendo così un viaggio di rinascita e di seconda possibilità della durata di nove mesi, nel mentre dovrà cercare di ricordare i peccati che ha commesso nella sua vita precedente. Se avrà successo, terminata la sua missione, l’anima potrà accedere al ciclo di reincarnazione, altrimenti verrà dispersa per l’eternità.

Non vi parlo ulteriormente della trama perché vista la brevità del romanzo sarebbe facile incorrere in spoiler, ma devo dirvi che è stata una lettura estremamente coinvolgente, tanto che ho finito il libro in un solo pomeriggio perché davvero non riuscivo a metterlo giù.

Parlare di questo libro non è affatto facile, nonostante le poche pagine (all’incirca 200), il breve ma coinvolgente viaggio dell’anima che si reincarna nel corpo di Makoto mi ha colpita in modo profondo e incredibile. Colorful è un libro di narrativa che è stato tradotto in tutto il mondo e trasposto in film e anime, una fama più che meritata, e sono convinta che, nonostante sia rivolto a un pubblico più giovane, è una lettura che andrebbe fatta a qualsiasi età.

Colorful è un bellissimo inno alla vita e ai suoi colori, un romanzo che parla di umanità e delle sue mille sfaccettature, che riesce a toccare in modo delicato, toccante, semplice e ironico temi difficili e complessi, come fragilità, salute mentale, bullismo, suicidio. Una storia che ci ricorda che c’è luce anche nei momenti più oscuri, che esistono seconde possibilità e che sta a noi cogliere la bellezza di ciò che ci circonda, riscoprendo con occhi nuovi la bellezza dei legami, degli affetti, delle cose che ci appassionano, accogliendo anche i difetti, gli errori, e accettando l’idea che nessuno è infallibile o perfetto, nemmeno le figure che idealizziamo sin dall’infanzia, come i genitori.

Colorful è stata una lettura emozionante, mi sono ritrovata più volte a commuovermi, sentendomi chiamata, in qualche modo in causa. Penso sia un libro che fa riflettere e che può aiutare se solo gliene diamo la possibilità. Tra le tante cose, mentre leggevo, mi sono ritrovata a pensare che ognuno di noi costudisce un universo dentro di sé e che quando entriamo in contatto con gli altri riusciamo solo a sfiorarne la superficie. Accedere a quell’infinito è difficile e complesso, è più facile fermarsi lì, guardare da lontano, giudicare, che fermarsi a comprendere, è difficile fermarsi ad ascoltare.

Come avrete capito, nonostante la semplicità della storia, Colorful è un romanzo che è riuscito a parlare alla mia anima, quindi non posso che consigliarlo a tutti e soprattuto a coloro che almeno una volta nella vita si sono sentiti persi, stanchi, sopraffatti, sbagliati.

Vi segnalo inoltre l’anime, con lo stesso titolo, che presto guarderò anch’io, uscito qualche anno fa e disponibile su Prime Video.

Vi lascio con un pò di citazioni tratte dal libro:

“Non ricordo nulla della mia vita. Però ho ancora addosso l’impressione che sia stata vagamente triste. E faticosa. E adesso che sono qui, qualsiasi cosa sia questo qui, non ho nessuna intenzione di arrampicarmi per tornare in cima a questo buco. Figuriamoci se ho voglia di tornare di là… dai vivi! Troppa fatica. E io sono stanco.”

“Forse chiunque su questa Terra vive la propria vita alimentato da false impressioni, fraintendendo gli altri e venendo a sua volta frainteso. é un’idea straziante, ma è anche vero che a volte le cose vanno bene proprio grazie a questo.”

“Siamo tutti così. Ognuno di noi ha la sua scatola di colori, alcuni sono belli e altri brutti.”

“Chiunque, in questo mondo terribile, ha le proprie crepe, le proprie ferite. Siamo tutti un pò rotti, in qualche modo.”

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Racconto: Lavanda, caffè e bagnoschiuma al sandalo

Buonasera lettori, stasera voglio condividere con voi un mio racconto con cui sono arrivata tra i finalisti a un premio letterario e a cui sono molto legata. Spero che vi piaccia questa storia, l’ho scritto in un periodo difficile e c’è molto di me nascosto tra una riga e un’altra.

Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito delle persone è il loro odore. Non so se avete presente, sto parlando di quell’essenza unica che ci portiamo dietro, quello sprazzo di vita che ti si attacca alla pelle e che ti assale i sensi con la forza di uno schiaffo quando entri per la prima volta in casa di qualcuno. La cosa buffa è che tutti ne hanno uno, anche tu che stai leggendo, ma nessuno è in grado di percepire il proprio. Quell’odore racconta un po’ la nostra storia, cosa abbiamo mangiato, quali prodotti abbiamo usato per fare il bucato e una volta che il nostro corpo inizia a sudare, Bam! Il gioco è fatto. La nostra essenza si amplifica, ce la portiamo dietro come una scia, una specie di impronta digitale olfattiva. Se fossimo cani, ci basterebbe il naso per riconoscerci.
Quando avevo dodici anni credevo che se mi fossi impegnato abbastanza avrei identificato l’odore di casa mia. Devo ammettere che all’epoca non ero molto sveglio, il mondo attorno a me andava a rotoli ma ehi, io ero troppo impegnato ad annusare i mobili per accorgermi della puzza di merda che aleggiava nell’aria.
Andavo in giro con una lente a contatto di plastica, walkman e cuffiette, un berretto girato all’indietro e sentivo che presto avrei fatto una scoperta che avrebbe rivoluzionato il mondo scientifico. Di notte, prima di addormentarmi, immaginavo uomini e donne con camice bianco e occhialoni che applaudivano e gridavano il mio nome. Insomma, avevo un sacco di idee bislacche.
Come ho detto prima, ero impegnato, davvero troppo impegnato per rendermi conto di mia madre che nascondeva la testa nella dispensa per asciugare le lacrime.
Così, quando vidi mio padre fare le valigie, gli chiesi dove stessimo andando.
«Sei troppo stupido per questo mondo, finirà per schiacciarti.» Mi disse.
A quel punto lasciai perdere le mie ricerche. Da un giorno all’altro mia madre smise di andare a lavoro. Iniziò a sbiadire, come un ricordo. Non si lavava, non si truccava, non indossava più le scarpe rosse che le piacevano tanto, né si spruzzava il profumo che mio padre le aveva regalato.
Passava intere giornate a letto. Di notte beveva e poi iniziava a gridare e colpire qualsiasi cosa le capitasse a tiro, finché non perdeva i sensi.

Casa di mia nonna sapeva di fiori, di cucina e di un odore fastidioso che poi identificai come naftalina.
Aveva un cane, un grosso meticcio troppo pigro per fare altro che starsene sdraiato tutto il giorno sotto al portico. Non faceva altro che russare, sbavare, mangiare e riiniziare tutto daccapo.
Volevo tornare a casa.
La nonna abitava in campagna, troppo lontano perché potessi vedere la mamma o i miei amici.
Anche se era sempre dolce e gentile, con lei mi annoiavo a morte. Era tutto così vecchio, dal grosso televisore in bianco e nero in cui le immagini si bloccavano e ronzavano, ai merletti sparsi sulle mensole, rigorosamente sistemati sotto arzigogolate cornici d’argento che mostravano le facce sorridenti di figli e nipoti, zii, sorelle e fratelli e gente che non avevo mai visto prima.
Fu allora che feci una scoperta che finì per rivoluzionare la mia vita. Ehi, niente di scientifico ovviamente. Mio padre aveva ragione, all’epoca ero davvero troppo stupido per quello.
No, scoprii interi mondi nascosti in carta e inchiostro. Leggevo e, seduto sulla sedia a dondolo che aveva costruito il nonno, vivevo mille avventure.
Quell’estate divenni un pirata, un cavaliere, uno stregone. Insomma, un vero eroe.
Finché tenevo la testa tra le pagine, mi sembrava che la mia vita non fosse poi così male.
Quando arrivò l’autunno, iniziai a frequentare la scuola in un paese vicino. L’edificio odorava di gesso, polvere e legno marcio. I bambini della mia età sembravano simpatici e, anche se all’inizio fu difficile, dopo qualche giorno riuscii a inserirmi nella loro cerchia.
A Natale mia madre venne a trovarci. Non la vedevo da mesi, anche se spesso mi chiamava per sapere come stessi, e la cosa che più mi colpì quando finalmente la riabbracciai, fu che l’odore della sua pelle non fosse più identico al mio. Cioè, non puzzava più di alcool o sudore, ma aveva un profumo nuovo, estraneo. Capii che non le appartenevo più.
Con lei c’era un uomo. Il tipo non mi piaceva per niente, continuava a rivolgermi sorrisi esagerati e mi parlava con un tono lento e gentile, come se non capissi la sua lingua.
Le chiesi se potessi tornare a casa. Mi prese la mano tra le sue. «Non ancora.»

L’estate dei miei tredici anni fu la più bella della mia vita. Ehi non sto scherzando, ero felice da fare schifo e cazzo non lo sapevo. Fu allora che conobbi il mio migliore amico. I suoi nonni vivevano nella fattoria accanto alla nostra e lui trascorse lì tutte le vacanze. Aveva la mia età ed era un tipo davvero intelligente, uno di quelli con tutti ottimo nella pagella. Anche a lui piaceva la scienza. Sorrideva sempre e profumava di limone e di qualcosa che mi faceva pensare ai panni stesi al sole.
Fu davvero un’estate magnifica. Di giorno leggevamo storie sotto al portico, stesi su vecchie lenzuola, e la nonna ci preparava limonata e biscotti. Di pomeriggio andavamo in esplorazione, scavavamo buche, alla ricerca di tesori nascosti, ci arrampicavamo su grossi alberi di melo che ci parevano montagne e combattevamo con rami caduti fingendo che fossero spade leggendarie. Dopo cena, invece, andavamo a caccia di lucciole, armati di barattoli con tappi forati e torce elettriche.
Ridevamo fino a che le mandibole non ci facevano male, anche quando uno dei due si sbucciava le ginocchia o si feriva, e davvero capitava spesso, non smettevamo mai di ridere.
Insomma, l’estate divenne la mia stagione preferita. Era il periodo dell’anno che aspettavo di più perché sapevo che finalmente avrei potuto vederlo. Smisi di chiedere a mia madre di portarmi a casa. Lei si risposò, mio padre invece non si fece più vedere. Non parlavamo molto di lui.
L’anno in cui compii sedici anni capii di essere diverso.
Non fraintendete, non diverso in senso strano. Non avevo una proboscide al posto del naso, né mi crebbe un palco di corna sulla testa. Ero solo diverso da ciò che gli altri si aspettavano che fossi.
Il mio migliore amico era tornato. Una notte ci mettemmo d’accordo per andare a vedere le stelle cadenti. Io sgraffignai delle lattine di birra dalla dispensa, lui portò il suo telescopio nuovo di zecca.
Ce ne stavamo seduti sulla terra fredda, a bere e raccontarci cazzate. Ero di nuovo felice, lo guardavo e mi sembrava di osservare il sole. Eravamo cresciuti, io avevo un paio di peli sulle labbra e pensavo di essere già un uomo vissuto, lui era diventato più alto e il suo corpo si muoveva in modo strano, come se non sapesse bene come occupare lo spazio. Ero ubriaco, all’epoca mi bastava davvero poco per esserlo, e quando mi sorrise pensai di non aver mai visto niente di più straordinario.

Penserete che ero un deficiente e forse lo ero sul serio. Gli sfiorai le labbra con le mie, un breve contatto, così leggero da sembrare impalpabile, eppure sentii il cuore scoppiarmi nel petto.
Quando il suo pugno mi colpì l’occhio sinistro, capii che la vita non era come i romanzi che leggevo.
Faceva male. E no, non solo l’occhio.
Smise di essere mio amico. Raccontò l’accaduto alla famiglia. I suoi genitori si presentarono a casa nostra e mi accusarono di essere un pervertito, un depravato malato di mente.
La voce si diffuse e ben presto divenni un emarginato. Mi sentivo un rifiuto.
Credevo che se fossi nato con un altro corpo le cose sarebbero andate diversamente.
La gente diceva che era colpa dei miei genitori o di mia nonna, se ero venuto su così male.
Io non pensavo di avere niente di sbagliato, ero soltanto me stesso.
Mia nonna mi disse che a lei non importava, potevano piacermi gli uomini o le donne, anche i cani, purché non mi drogassi e continuassi a mangiare ciò che mi preparava. La adoravo.
A volte ci pensavo, a farla finita intendo. Sembrava una scelta facile, più facile di dover affrontare l’odio, ma poi pensavo a lei e mi dicevo che non avrei potuto farle una cosa del genere.
Quando lo venne a sapere, mia madre pianse. «È colpa di tuo padre.» disse. «Ti è mancata una figura paterna, se non ci avesse lasciato non saresti così.»
All’epoca aspettava un bambino. Le augurai che almeno lui fosse normale e riagganciai la cornetta.
Non ricordo molto di quanto accadde in seguito. Quando provo a pensare a quel periodo è come se il mio cervello si trasformasse in una sorta di budino. Ero sempre arrabbiato, quello lo so per certo.
Mi chiamavano checca, maniaco e in altri modi a cui non voglio nemmeno pensare. Mi picchiavano. Mi trascinavano dietro la scuola e mi prendevano a calci finché non sanguinavo. Non so se mi facevano più male le suole delle loro scarpe o l’indifferenza dei passanti, che fingevano di non vedere.
Ci provai a essere diverso, davvero. L’anno in cui mi diplomai baciai una ragazza. Lei si truccava come se volesse dimostrare di essere più grande della sua età, sembrava sicura di tutto, al contrario di me. Le sue labbra sapevano di caramelle. Non provai niente. Mi sentii uno stronzo.

Quell’estate fu la peggiore di tutte. Ero di nuovo preso da me stesso, incapace di decidere cosa fare della mia vita di merda, quando il mondo mi crollò addosso.
Mia nonna ebbe un infarto. Il medico disse che aveva bisogno di riposo, le prescrisse delle medicine.
Non riuscivo a crederci. La guardavo mentre se ne stava seduta sulla sua poltrona a leggere il giornale e mi chiedevo quando esattamente fosse diventata così vecchia, persino la sua pelle mi sembrava fragile come carta velina. Anche il cane pareva avere le mie stesse preoccupazioni. Abbandonò il suo posticino preferito al sole per passare le giornate sdraiato ai suoi piedi.
«Non devi preoccuparti per me.» Mi disse una sera. Faceva caldo, le pale del ventilatore giravano producendo un ronzio pigro. Le stavo sbucciando una mela. «Se dovessi andarmene, promettimi che non sarai triste. Io lo so che ci rivedremo in paradiso.»
La sua mano mi teneva la guancia, era fredda. Sentii un groviglio di qualcosa soffocarmi, spingermi verso il basso. Non ebbi la forza di dirle la verità. Non potevo dirle che anche se c’era un aldilà, per il suo dio non c’era posto per quelli come me, che probabilmente avrei finito per bruciare tra le fiamme dell’inferno. Invece le dissi che le volevo bene. La cosa buffa è che prima non riuscivo proprio a dirle che le volevo bene, quando ci provavo le parole mi si bloccavano in gola. In quel periodo glielo ripetevo di continuo, era come se avvertissi un’urgenza che non sapevo spiegarmi.
Se ne andarono insieme. Lei per prima, un paio di giorni dopo la seguì il cane.
Spero che siano in un posto migliore di questo.
Mi lasciò la casa e le terre. Non potevo restare. Mi sembrava di vederla entrare in casa, armeggiare in cucina, continuavo a sentire la sua voce che chiamava il mio nome o quello del cane.
Cazzo, mi sembra di sentirla anche adesso.
Tornai in città. Impacchettai il poco che avevo e decisi di ripartire da zero. Mia madre mi offrì di tornare a vivere con lei, rifiutai. Una parte di me voleva odiarla per ciò che mi aveva fatto, per essere stata debole. Non ci riuscivo, ero nato dalla sua carne. Sapevo che, anche se sembrava felice, aveva delle cicatrici che nessuno poteva vedere, stava ancora combattendo.

Presi una stanza in affitto. Era un buco di merda in periferia, c’era a malapena lo spazio per stare in piedi. Puzzava, non so se di piscio, vomito o muffa, ma davvero non si resisteva per la puzza.
Per mantenermi feci di tutto: il fattorino, il cameriere, distribuii volantini e andai a lavare le macchine. Accettavo tutto, mi bastava tenere la testa impegnata e riuscire ad arrivare a fine mese, pagare le bollette e avere qualcosa da mettere sotto ai denti.
Penso di aver dato un grosso contribuito all’inquinamento con tutte le lattine che mandavo giù.
Ero solo, incazzato. Non avevo voglia di aprirmi. Le persone mi terrorizzavano, avevo paura di ciò che mi avrebbero fatto se avessero saputo chi ero davvero.
La domenica andavo a cena da mia madre. Mi diceva che ero troppo magro, che dovevo trovarmi compagnia, che poteva darmi dei soldi se ne avevo bisogno.
Io rispondevo che ero a posto. Non so se lo ero davvero. La vedevo muoversi in casa, quella che un tempo era stata anche casa mia, la osservavo mentre si prendeva cura dei miei tre fratellini e qualcosa dentro di me moriva.
I bambini erano simpatici, sicuramente molto più intelligenti di me alla loro età.
Mi piaceva come mi guardavano, come se fossi qualcuno che un giorno avrebbero voluto essere, come se fossi degno della loro ammirazione.
Il nuovo marito era ok, anche se faceva battute che non facevano ridere nessuno, almeno ci provava, e comunque era sempre meglio di mio padre.
Mia nonna mi mancava. Spesso mi sembrava di sentire la terra aprirsi sotto i piedi quando pensavo a lei. Era come se il mio intero universo fosse dipinto di blu.
Sentivo tanto blu all’epoca, tanto che pensavo che prima o poi avrebbe finito per sopraffarmi.
La sera andavo a letto e speravo che il mattino seguente non avrei aperto gli occhi, guardavo il soffitto e avevo voglia di urlare. Ehi, so che sembra pietoso, ma non ero più in me.
Avevo voglia di raggiungerla. Una delle cose che mi ha fermato è stata pensare alle ciabattate che mi avrebbe tirato. Andavo avanti solo per lei, volevo renderla orgogliosa.

Lavoravo in un bar quando lo vidi per la prima volta. Avevo trent’anni, stavo meglio, finalmente.
Mi sentivo guarito, vittima della routine, ma comunque un sopravvissuto. Fuori diluviava, alla radio passava una di quelle canzoni che la nonna avrebbe sicuramente canticchiato. Mi chiese un caffè.
«Zucchero?»
«No, lo prendo amaro come la vita.»
Il suo caffè si raffreddava, ma lui, invece di berlo, continuava a fissare me. Mi chiesi se avessi qualcosa che non andava, ma, quando più tardi controllai allo specchio, era tutto come al solito.
Tornò il giorno seguente e quello dopo ancora. E ancora. E ancora. E ancora.
Era estate quando trovò finalmente il coraggio di chiedermi di uscire. Mi portò in spiaggia, mi prese la mano tra le sue e quando le sue labbra trovarono le mie, sentii il cuore impazzire, battermi nel petto come centinaia di ali di falena attratte dalla luce.
Non so perché, ma le cose più belle e quelle più brutte della mia vita sono sempre accadute in estate.
A mia nonna sarebbe piaciuto. È gentile e ha il sorriso più bello del mondo, si prende cura di me e io mi prendo cura di lui. Penso di amarlo. Per la prima volta dopo anni mi sento di nuovo me stesso, presente, come se fossi il protagonista della mia vita e non solo un osservatore.
Siamo tornati in campagna. Lui scrive, lo fa sicuramente meglio di così. Dice che la sua prossima storia parlerà di me, non vedo l’ora di leggerla. Io lavoro la terra, come facevano i miei nonni.
Abbiamo preso un cane. La sera se ne sta sdraiato ai nostri piedi mentre guardiamo le stelle.
A volte mi capita di pensare a quel bastardo di mio padre. Vorrei sapere dov’è, vorrei dirglielo che alla fine il mondo non mi ha schiacciato, ma che sono stato io a prenderlo a calci in culo.
Casa mia profuma di torta di mele, pagine ingiallite, dopobarba, lavanda, caffè e bagnoschiuma al sandalo, di speranza. Vi starete chiedendo che razza di odore è. Beh, in effetti è un profumo abbastanza singolare. Non deve avere un senso. A me fa pensare all’amore, a ciò che stavo cercando da bambino e che poi ho continuato a cercare per tutta la vita, senza nemmeno saperlo.
È il profumo della persona con cui posso essere me stesso.

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5 Drama da Vedere ad Halloween

Buondì lettori, in occasione de l’Halloween 2022 blog tour, organizzato da La libreria di Yely e Eynys Paolini, ho deciso di consigliarvi 5 Drama, con atmosfere perfette per questa festa e adatti anche a chi, come me, non è un amante dell’horror, ma adora gli elementi sovrannaturali e le storie con un tocco macabro e inquietante. Prima di iniziare ci tengo a ringraziare la carissima Yelena de La libreria di Yely per avermi invitata all’evento e spero che i miei suggerimenti potranno esservi utili per una serata spettrale.

  1. The Ghost Bride

Paese: Taiwan Episodi: 6 Generi: Thriller, Storico, Horror, Sovrannaturale Dove vederlo: Netflix Trama: Malacca, fine ‘800. Li Lan è una giovane ragazza a cui viene proposto di sposare Lim Tian Ching, figlio di una famiglia benestante morto da poco in circostanze misteriose. Si ritrova così nell’aldilà, coinvolta nel mistero che si cela dietro al suo decesso.

Tratto dall’omonimo libro dell’autrice Yangsze Choo, questo è un Drama da non perdere per gli appassionati della cultura cinese e delle sue tradizioni. Per placare lo spirito crudele e irrequieto del defunto Lim Tian Ching, a Li Lan viene proposto di diventare una sposa fantasma. La ragazza rifiuta, ma lo spirito sembra deciso a non lasciarla andare, l’unico modo per sbarazzarsi di lui sembra essere quello di svelare il mistero che si cela dietro la sua morte improvvisa. Per far luce sulla vicenda Li Lan affronterà elementi sovrannaturali, colpi di scena, amori proibiti e un inquietante viaggio nell’aldilà.

The Ghost Bride è un Drama che coniuga diversi elementi come il mistero, l’horror, senza rinunciare al divertimento e al romanticismo. Ho apprezzato tantissimo i costumi e la fotografia di questo Drama che offre una perfetta rappresentazione storica della Malesia del periodo e un interessante scorcio sulle credenze cinesi, sulle tradizioni riservate ai defunti, come in questo caso il matrimonio o come quella di fare offerte ai defunti, bruciando cartamoneta, una carta speciale su cui sono stampati soldi per agevolare il passaggio nell’aldilà, oltre che dell’inferno cinese con i suoi giudici e i tribunali. Gli episodi sono pochi e riescono a catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore, infatti non riuscivo a smettere di guardarla. Un altro punto a favore è il cast di questo Drama, specialmente l’attore che interpreta Lim Tian Ching, nonostante sia molto lontano dal personaggio descritto nel libro, ho adorato la sua interpretazione.

2. A Korean Odissey

Paese: Corea del Sud Episodi: 20 Generi: Horror, Commedia, Fantasy, Romantico Dove vederlo: Netflix Trama:. Nel 2017, Son Oh-gong e Woo Ma-wang sono in conflitto tra loro mentre cercano una vera luce in un mondo oscuro in cui prospera il male. Da lì, Son Oh-gong è legato al suo ruolo protettivo nei confronti di Jin Seon-mi, la bambina che aveva conosciuto anni prima. Avendo stipulato un contratto con Seon-mi 25 anni fa, che le dava il diritto di chiedere aiuto a Son Oh-gong ogni volta che lo chiama in cambio di averlo lasciato libero, i due si incontrano di nuovo in un fatidico incontro.

Seon-mi è una bambina nata con la capacità di vedere fantasmi e spiriti. Il suo comportamento bizzarro l’ha isolata dalla sua famiglia e dai suoi coetanei, e la sua unica protezione è sua nonna e un piccolo ombrello giallo con incantesimi protettivi scritti da un monaco buddista. Un giorno, quando torna a casa da scuola, un fantasma la segue. Un uomo misterioso con un cappello a cilindro nero, esorcizza per lei il fantasma e le chiede un favore: entrare in una casa magica e maestosa e recuperare un certo ventaglio. Le vengono anche date istruzioni specifiche per ignorare chiunque veda lì dentro. Tuttavia, la persona all’interno della casa è Son Oh-gong, il Re Scimmia, che è stato imprigionato all’interno dal Cielo per i suoi crimini.

 A Korean Odissey è una reinterpretazione del classico cinese Journey to the west, un Drama imperdibile per gli appassionati del fantasy asiatico. Demoni, spiriti, l’eterno conflitto tra bene e male e le atmosfera dark caratterizzano questo Drama. Io lo sto ancora seguendo e probabilmente continuerò a guardarlo proprio stasera. Una delle cose che mi sta affascinando di più di questa serie sono i personaggi grigi. Oh Gong, Il Re Scimmia, ad esempio, non è un personaggio positivo, anela all’immortalità, così come Ma Wang, il demone Toro, e al primo incontro con la protagonista vorrebbe mangiarla, il suo sangue, infatti, avrebbe il potere di renderlo più forte.

3. Tale of the Nine Tailed

Paese: Corea del Sud Episodi: 16 Generi: Thriller, Horror, Romantico, Fantasy Dove vederlo: Viki Trama: La storia segue Lee Yeon, il Gumiho che un tempo governava come un dio vivente sulla catena montuosa Baekdudaegan, ma che ora lavora come una sorta di pubblico ufficiale tra questo mondo e gli inferi, collaborando con un agente dell’Ufficio Immigrazione dell’Aldilà e protettore del fiume Samdo, per sradicare gli esseri soprannaturali che minacciano il mondo mortale, nascondendosi sotto le sembianze di storie di fantasmi.

La trama si divide tra passato e presente. Lee Yeon è un Gumiho, una volpe a nove code, che finisce per innamorarsi di un’umana. In seguito a un tragico epilogo, il destino separa i due innamorati. Lee Yeon rinuncia al suo ruolo di Dio della montagna, alla ricerca della reincarnazione della sua amata attraverso i secoli. Nel presente, Nam Ji Ah è la PD del programma televisivo “Alla ricerca delle leggende urbane”. Determinata a svelare il mistero attorno alla scomparsa dei suoi genitori, avvenuta quando era bambina, Nam Ji Ah è alla ricerca della prova che il sovrannaturale esiste. Quando si imbatte in Lee Yeon, il misterioso sconosciuto che l’ha aiutata anni prima, chiederà il suo aiuto, lui accetta, Nam Ji Ah sembra identica alla donna che ha amato in passato.

Tale of the Nine Tailed è un Drama perfetto per questa giornata, troviamo la buona dose di demoni, creature sovrannaturali, tensione, mistero e eventi inquietanti, anche qui senza rinunciare a momenti comici e all’aspetto romantico. Da innamoratissima di Lee Dong Wook, non potevo lasciarmi sfuggire questo drama. Ho adorato la fotografia, la trama, l’aspetto fantasy, la storia d’amore, i personaggi (finalmente una protagonista determinata e coraggiosa). La mia interpretazione preferita è stata quella di Kim Bum, nel ruolo di Lee Rang, fratello del protagonista e il personaggio, a mio avviso, più complesso del Drama, sono passata dal detestarlo al ritrovarmi in lacrime per lui, poi adoro, sia nei libri che nelle serie, le dinamiche tra fratelli e il rapporto amore-odio, in questo caso mi ha colpito più della parte romance. Il Drama, inoltre, sarà presto seguito da una seconda stagione e io non vedo l’ora di vederla.

4. Goblin

Paese: Corea del Sud Episodi: 16 Generi: Fantasy, Commedia, Romance Dove vederlo: Viki Trama: Kim Shin, forte generale dell’era Goryeo muore in circostanze tragiche ritrovandosi però con il dono dell’immortalità. Dopo 900 anni è ormai stanco di vivere e di cercare la sua sposa, l’unica mortale che può estrarre la spada nel suo petto che lo rende immortale e gli impedisce di morire. Un giorno, incontra Jin Eun Tak, una studentessa dal tragico passato che può vedere i fantasmi e anche la spada. La ragazza, trovandosi in circostanze difficili, decide di approfittare della situazione dichiarando di essere la sua sposa.

Goblin per me è la perfezione, è stato uno dei miei primi K-Drama e ad ora è il mio preferito di sempre, ogni occasione è perfetta per guardalo o riguardarlo (nel caso in cui lo aveste già visto). Gli elementi sovrannaturali non mancano: troviamo la figura leggendaria del Goblin, dalla mitologia Coreana, una divinità con poteri straordinari, una protagonista in grado di vedere i fantasmi a causa delle particolari circostanze legate alla sua nascita, un Cupo Mietitore, una sorta di Angelo della morte con poteri sovrannaturali, il cui compito è quello di raccogliere le anime dei defunti e indirizzarle nel viaggio verso l’aldilà e che per diventare cupo mietitore ha commesso uno dei peccati più grandi nella sua vita passata.

Goblin è la serie perfetta, ho amato tutto dal cast eccezionale, impossibile non affezionarsi ad ogni personaggio e ai loro strambi rapporti, i momenti comici e quelli che ti spezzano il cuore, la bellissima storia d’amore tra i protagonisti e anche quella della coppia secondaria, lo strambo rapporto tra i due male leads, che fa pensare subito al bromance, la colonna sonora che mi è rimasta nel cuore. Uno dei temi centrali della storia è il found family, uno dei miei preferiti anche nei libri, e qui è sviluppato egregiamente, le scene con i protagonisti principali riscaldano il cuore e vi faranno sorridere anche se state passando una giornata no. I colpi di scena non mancano e la storia ruota attorno ai concetti di destino, redenzione, reincarnazione. Insomma, se non avete ancora visto questo Drama, dovete per forza recuperarlo, preparatevi ad innamorarvi, a ridere a crepapelle e si, anche a soffrire, ma vi assicuro che ne vale assolutamente la pena.

5. He’s Coming to Me

Paese: Thailandia Episodi: 8 Generi: Sovrannaturale, Mistery, Romance LGBT, Commedia Dove vederlo: Youtube Trama: Dopo la sua morte, Mes è un fantasma consumato dalla solitudine. Almeno finché non incontra uno strano bambino che è in grado di vederlo. Tra i due si instaura un forte legame fatto di felicità e gioia e col tempo diventano amici. Ma cosa succede quando Mes si innamora del ragazzo ancora vivo?

20 anni prima, Mes muore all’improvviso per un attacco di cuore. Il ragazzo diventa un fantasma solitario, intrappolato nel confine del cimitero in cui è sepolto. Nessuno fa visita alla sua tomba per anni o se ne prende cura. Mes attende ogni anno il giorno del Qinming, sperando che qualcuno si ricordi finalmente di lui, finché un giorno, un bambino di nome Thun, insieme a suo padre, visita il cimitero. Si imbatte nella tomba incustodita di Mes e decide di offrire del cibo e promette di tornare ogni anno, fino a quando Mes non scopre che Thun, ora adolescente, può vederlo. Nonostante le difficoltà e i diversi mondi di appartenenza, tra i due si instaura una relazione speciale, fatta di vecchie canzoni, affetto e spontaneità, Thun aiuta Mes a lasciare il cimitero e insieme decidono di indagare sul mistero legato alla sua morte.

He’s coming To Me è il Drama perfetto per Halloween se come me adorate le storie di fantasmi, ma siete un pò fifoni, insomma se uno dei vostri film preferiti è Casper, non potete assolutamente perdervi questa meraviglia. La Thailandia ha una tradizione e un folklore davvero impressionanti riguardo ai fantasmi e agli spiriti, e per me è stato davvero interessante scoprire un pò attraverso la visione di questo Drama. I protagonisti principali sono davvero adorabili, me ne sono subito innamorata, specie di Mes per la sua tranquillità e la sua dolcezza. La storia non risulta mai pesante, al contrario, è caratterizzata da una sorta di sentimento di malinconia, alternato a momenti divertenti e dolci in grado di rapire il cuore dello spettatore, anche la componente romance è perfettamente bilanciata, la relazione tra i due protagonisti si sviluppa in maniera egregia e ho adorato l’interpretazione dei due attori protagonisti e i colpi di scena. Ad oggi è uno dei miei BL preferiti, un vero capolavoro, quindi non posso che consigliarvelo.

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Recensione: Cenerentola: la vera storia della fata madrina

“Tutti i miei vecchi amori mi saranno restituiti.”

Buongiorno lettori, oggi ho il piacere di parlarvi in anteprima di Cenerentola: la vera storia della fata madrina, retelling in chiave dark fantasy di una delle fiabe più amate di sempre, quella di Cenerentola, raccontata dal punto di vista della Fata Madrina, una figura spesso messa in ombra e poco approfondita negli adattamenti più famosi, ma che qui ritrova la propria voce per raccontarci la sua storia, una storia che non è andata esattamente nel modo in cui siamo abituati a pensare, curiosi?

Il libro uscirà il 21 Settembre, per la Dark Abyss Edizioni, che ci tengo a ringraziare per averci dato la possibilità di leggerlo in anteprima, la cover che vedete non è quella definitiva, ma quella destinata ai blogger. Prima di iniziare a parlarvi del libro, voglio inoltre ringraziare le ragazze del blogtour per avermi coinvolta nel progetto e aver organizzato il blogtour. Se volete saperne di più, potete seguire le recensioni su Instagram attraverso #laverastoriadiLil

Genere: Dark Fantasy Autore: Carolyn Turgeon Editore: Dark Abyss Uscita: 21 Settembre 2022 Formato: Brossura Pagine: 339 Trama: Lilian è stata bandita dal suo mondo, si è macchiata di una colpa enorme di cui porta il peso da secoli. Ma cosa può aver desiderato la fata più conosciuta della storia, la Fata Madrina di Cenerentola? La stessa Cenerentola il cui destino è già stato deciso dalle Anziane? Solo un’azione compiuta in nome dell’Amore romperà l’incantesimo che la tiene legata alla Terra. E Lilian lotterà, sospesa tra due mondi, per espiare la sua colpa. Ma le fate esistono realmente? La fiaba oscura di Cenerentola che nessuno vi ha mai raccontato.

Da grande amante dei retelling, ero davvero curiosa di leggere questo libro, sin da piccola ho sempre adorato la fiaba di Cenerentola e immaginarne una riscrittura in chiave oscura mi ha subito affascinata come poche cose. Il tocco di nostalgia, mistero e inquietudine che caratterizza la storia, unito al fascino intramontabile della magia delle fate, rende questa lettura davvero perfetta per l’autunno.

La trama si svolge tra presente e passato, un intreccio di chiaroscuri, due momenti della vita di Lil, la nostra protagonista, decisamente agli antipodi come oscurità e luce. Da un lato abbiamo il presente, il mondo degli umani, Lil è stata bandita dal suo regno, è vittima di una maledizione causata da una colpa di cui si è macchiata secoli addietro. Nostalgia, sofferenza, dolore, il presente di Lil è opprimente, il suo corpo piegato dall’età, imprigionato in forma umana, privato della magia. Dall’altro abbiamo il passato, il mondo delle fate, un sogno a occhi aperti, un mondo incantato a cui Lil anela di tornare, ma solo un’azione compiuta in nome dell’amore potrà rompere l’incantesimo che la tiene legata alla terra.

Lil lavora in una libreria, la Daedalus Books, ama sfogliare vecchi libri, scoprire i segreti che nascondono, dediche, frasi o piccole annotazioni, frammenti di vita passata, che riecheggiano le vite dei loro precedenti proprietari. Sarà proprio grazie alla sua passione per i libri, che la storia di Lil prenderà il via, il passato tornerà a galla, intrecciandosi con i volti e le forme del presente, un mistero mai dimenticato, il desiderio di rimediare agli errori del passato, la magia che supera i confini dei mondi per lambire le vite degli umani. La storia di Lil è un crescendo di emozioni che riesce a coinvolgere il lettore dalla prima all’ultima pagina.

“Allungai la mano e tirai fuori il mio preferito: il libro in fondo all’ultimo scaffale, nascosto, le pagine sottili come veli di cipolla. Strusciai il palmo sulla copertina in rilievo. Feci un respiro profondo, aspirando il ricco profumo di corteccia, poi tirai indietro la copertina, con attenzione, come se stessi maneggiando del vetro e sbirciai all’interno. George aveva molte vecchie collezioni di racconti, ma questa era la mia preferita. Aveva i disegni più delicati, separati da fogli traslucidi picchiettati da macchie d’oro, che crepitavano quando li giravo. Sentii qualcosa in gola come accadeva sempre, e girai le pagine, toccandole appena, premendole piano con le mani per non farle sbriciolare.”

La vera storia della fata madrina è un libro toccante e in qualche modo sorprendente. Lo stile di scrittura è lineare ma poetico e evocativo. Uno dei suoi punti forti è sicuramente il numero di pagine che permette di leggerlo in poco tempo, io infatti l’ho letteralmente divorato, avevo assolutamente bisogno di scoprire come sarebbe finita la storia di Lil e il mistero legato al suo passato. All’apparenza può sembrare una lettura leggera, ma in realtà questo libro cela un profondo significato e tratta temi molto complessi, di cui non vi anticipo nulla per evitare spoiler.

Un commento merita sicuramente il finale. Un cliffhanger da mani nei capelli. Dopo aver voltato l’ultima pagina, inizialmente ammetto di aver visto nero, ma riflettendoci, ho apprezzato il fatto che il finale mi abbia permesso di rivalutare il libro, ripercorrerlo in un certo modo e sicuramente riflettere.

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Racconto: Redenzione

Buonasera lettori! Per festeggiare il primo anno della pagina instagram ho pensato di condividere con voi uno dei primi racconti che ho scritto, con cui ho partecipato a un concorso letterario e a cui sono particolarmente legata.

Titolo: Redenzione Autore: Moccia Chiara

In una fitta e oscura foresta di secolari ed imponenti conifere, tanto estesa che se osservata dall’alto pareva il manto ispido di una mastodontica bestia addormentata, c’era una piccola radura. La radura era un minuscolo squarcio contornato da pini e abeti, c’erano cespugli e rovi che ricoprivano il suolo, e se si sollevava lo sguardo, nelle giornate buone, tra le foglie aghiformi si riusciva a intravedere il lucore dei raggi solari che trapassavano la penombra.
Nel bel mezzo di questo angolo sperduto e solitario c’era una statua di fredda e grigia roccia.
La scultura poggiava su un basamento e raffigurava un uomo, un re, seduto sul suo trono.
Il volto di pietra, austero e perfetto, era incorniciato da riccioli ordinati e da una barba lunga e curata. Gli occhi della statua erano freddi e distanti e sul capo aveva adagiata una corona decorata da pietre preziose. Attorno alle spalle, dritte e rigide, cadeva un lungo mantello le cui pieghe perfette avevano iniziato a corrodersi. Le braccia erano stese in avanti, le mani serrate attorno all’impugnatura di un’imponente spada, la cui lama scendeva tra i piedi della figura per andarsi a conficcare nel basamento.
Non c’era anima viva che ne conoscesse l’ubicazione o i segreti, ma al contrario, anime morte ce n’erano eccome. Spiriti e ombre che continuavano a tramandarsi e a sussurrare nel sottobosco la deplorevole storia del monarca maledetto.
Difatti quella non era affatto una semplice statua di roccia, quella scultura era il re in persona, un uomo spietato, punito da uno stregone per le atrocità di cui si era macchiato in vita.
A causa della maledizione, il suo corpo era stato tramutato nel suo eterno sepolcro e, murato vivo in quella prigione di nuda pietra, il re aveva visto trascorrere impotente dapprima giorni, poi mesi e stagioni, infine intere ere.
Era passato talmente tanto tempo che il re aveva dimenticato il suo stesso nome.
Lo stregone lo maledisse a rivivere ogni notte le barbarie che lui stesso aveva inflitto al suo popolo, la punizione sarebbe cessata soltanto se il re avesse compreso le proprie colpe, ma il suo cuore di pietra era incapace di ravvedersi.
In vita il re aveva commesso i più orridi e abbietti peccati, aveva voltato le spalle al suo popolo, costringendolo alla fame e alla miseria, mandato giovani a morire in suo nome nei campi di battaglia, preteso le vite degli innocenti incapaci di sostenere il prezzo esoso delle sue decime.
Quando il sole cominciava a tramontare aldilà della collina e i contorni della foresta si facevano rubri e dorati, lui non riusciva a vederci la bellezza della natura ma solo sangue, sangue rosso e limpido che doveva essere ancora versato in suo nome. Allora aveva inizio il suo castigo.
Dalle sue mani macchiate di peccato, perpetuamente strette attorno all’elsa della sua amata spada, cominciava a grondare un liquido viscoso e grumoso, nero come l’onta sulla sua anima. Gracchiando venivano i corvi, poggiavano le loro zampe sul cranio di pietra e si sporgevano in avanti per pungergli gli occhi con i loro becchi ricurvi.
Lacrime di sangue gli attraversavano il volto in lugubri rivoli, gli artigli delle creature gli raschiavano la testa e il re gridava, gridava, ma nessuno poteva udirlo.
Quanto la tortura aveva fine, dopo ore di tormento e agonia, i rami degli alberi che circondavano la radura si protendevano verso il cielo e intrecciandosi creavano una cupola di tenebra, quindi giungevano le anime.
La loro carne era simile a fumo evanescente e attraverso di essa si riusciva a intravedere il bianco lattiginoso dei loro scheletri. In fila dinanzi al re, lo accusavano a turno del loro defungere e nonostante tutto il tempo già trascorso non erano mai le stesse.
«Hai ammazzato i miei genitori perché non potevano saldare le tue tasse, erano persone oneste.»
gli disse una notte un bambino, fissandolo con le sue orbite vuote.
«Io sono morto solo qualche giorno dopo, in un vicolo, avevo tanto freddo e tanta fame. Perché non mi hai dato da mangiare grande re?»
I soldati giungevano in gruppo e i loro orribili lamenti squarciavano l’ovatta delle tenebre. Neanche la morte aveva avuto pietà per le loro anime, tanto che erano costretti ad aggrapparsi l’uno l’altro per sostenere le loro membra maciullate e mutilate.
«Ci hai costretti a marciare contro i tuoi nemici ben sapendo che avremmo pagato il prezzo più alto, ignorando i desideri che serbavamo nei nostri cuori, strappandoci alle nostre famiglie. Sei soddisfatto adesso grande re?» gli chiese uno dei soldati mantenendosi le viscere sporgenti con le mani scheletriche.
Quando anche queste sparivano e il cielo si tingeva dei colori rosati dell’alba, una voce possente gli domandava se si fosse finalmente pentito, ma lui orgoglioso e caparbio, non rispondeva mai.
Di giorno i suoi tormenti cambiavano forma, il suo corpo era esposto ai capricci del cielo.
Durante l’estate il sole gli seccava la pelle, lo ustionava e gli seccava la gola, tanto che gli pareva di inghiottire sabbia ad ogni respiro, rantolava e pregava che giungesse rapido il dolce sollievo della morte per portarlo via.
Le piogge autunnali e primaverili lo infradiciavano a tal punto che si sentiva sciogliere come fango, eppure la statua continuava ad esistere immutata.
D’inverno le tormente di neve rendevano la sua pelle livida e rigida, le dita gli si staccavano dagli arti solo per poi ricrescere e cadere nuovamente.
Si ammalava e delirava e allora sognava di essere ancora vivo, ancora potente, ancora il re grande e crudele che era stato. Mai una volta si pentì delle sue azioni, cos’erano in fondo quelle vite comuni in confronto alla sua? Il suo destino era stato scritto nelle stelle come quello dei re suoi antenati, il popolo esisteva solo per servirlo, e un regno aveva bisogno di sangue e ossa, sacrifici, per costruire solide fondamenta.
Egli non aveva mai imparato ad amare il prossimo. In una vita così lontana che adesso sembrava non appartenergli più, aveva conosciuto soltanto il desiderio, l’ossessione per il denaro e il potere, la smania per la fastosità e la grandiosità che spettavano per legge divina al suo reame.
Delle volte la brama di vendetta verso lo stregone sciamava, allora la sua mente si perdeva in remoti ricordi. Abiti lussuosi di pesante broccato, l’oro lucido della sua corona che prendeva vita sotto le luci tremule dei candelabri, i sudditi che si inchinavano al suo passaggio intimoriti, i lauti e profumati banchetti che si concedeva, il brivido di piacere che gli attraversava il corpo quando condannava un traditore a penzolare dal cappio.
Con quelle immagini inebrianti che gli scorrevano nella mente, il re credeva che avrebbe potuto davvero passare l’eternità laggiù, avrebbe potuto persino sopportare in eterno le lagnanze di quelle sudicie ombre, l’affronto del loro ciarlare senza nemmeno abbassare lo sguardo in sua presenza. Ma il re non aveva fatto ancora i conti col destino, che tanto osannava.
In un giorno soleggiato, in cui un vento fresco e leggero faceva ondeggiare le cime degli alti alberi sempreverdi, gli uccelli cantavano tra i rami e le foglie cadute scricchiolavano sotto le zampe leste di volpi e lupi grigi, una figura apparve al limitare della radura.
Entrò nel cono di luce guardandosi attorno con un’aria spaesata e miserabile, guardinga.
Indossava vesti logore, sulla testa aveva un intrico di capelli che parevano un nido e un cestino sottobraccio carico di frutti violacei, del sottobosco.
L’attenzione del re si concentrò sulla ragazza, il primo essere umano che incontrava da secoli, gridò a perdifiato, ordinandole di aiutarlo ma ovviamente quella non lo udì.
Quando notò la statua, il volto della ragazza si aprì in un’espressione di puro stupore.
Posò il cesto a terra e corse verso la scultura inquietante, tanto perfetta da sembrare viva, salì il gradino del basamento e si piegò in una sfacciata riverenza.
«Sua maestà!» ridacchiò facendo roteare le sottane stracciate.
Il re ruggì inutilmente per l’affronto, disgustato. Come osava rivolgersi a lui a quel modo?
La osservò meglio, aveva le labbra inzaccherate dal succo rosso dei frutti, il volto coperto dalla polvere e le disgustose mani callose di chi aveva bisogno di lavorare per vivere.
Gli occhi grigi erano vispi e avidi, i capelli erano neri come il carbone e la sua figura era esile e magra come un inutile chiodo.
La ragazza, dal canto suo, ammirò la bellezza straordinaria di quella che pareva un’opera ma che in realtà era un uomo, ne accarezzò i lineamenti spigolosi, studiò l’espressione algida e severa del volto e ne restò profondamente impressionata. Restò a contemplarla in silenzio mentre il re la omaggiava tacitamente dei più gravi e spregevoli insulti.
«Stracciona!» gridava. «Vattene!»
E poco dopo quella lo fece davvero, gli diede le spalle e sparì nel folto della foresta.
Quel giorno qualcosa cambiò nel re, mentre, come sempre, i corvi gli cavavano i bulbi oculari dalle orbite, e le anime gemevano e ululavano il proprio dolore, e dalle mani gli colava il sangue rappreso di coloro che aveva ucciso, si sentì solo e misero per la prima volta.
Il giorno seguente si trovò a sperare che quella creatura indegna tornasse, ma le sue aspettative vennero deluse.
All’improvviso avvertiva di nuovo il pruriginoso desiderio di tornare uomo per poter gridare finalmente i suoi pensieri ed essere udito, per sentire ancora l’impugnatura ruvida della sua spada tra i polpastrelli, i sapori esplodergli in bocca e la dolce carezza del vento inondargli i sensi.
La ragazza fece ritorno soltanto dopo tre interminabili giornate, con un secchio di legno ricolmo d’acqua sulle spalle e un sorriso che le illuminava il volto sudicio.
Che cosa avesse poi da essere tanto felice una creatura tanto disgraziata, il re non lo capiva.
Si arrampicò nuovamente sul basamento di roccia e prese a strappare via i rovi e i rampicanti che nel tempo lo avevano ricoperto, poi usò l’acqua per lavare via i rigagnoli rossi e neri dal suo volto e dalle mani.
«Se soltanto fossi vero…» cominciò a dire e prese a raccontargli la storia della sua miserabile vita come se fosse il suo più vecchio e caro amico.
Veniva da un piccolo villaggio al limitare della foresta, viveva in un tugurio che era una stanza con suo padre, padre che era in fin di vita a causa di una brutta malattia che lo costringeva a letto e che lo faceva tossire rosso, da allora era obbligata ad avventurarsi nella foresta per cercare frutta e radici da vendere al mercato perché se non fosse riuscita a racimolare abbastanza denaro il nuovo monarca avrebbe preteso le loro teste.
Il re pensò che certe cose non cambiavano mai mentre la ascoltava, non provò pietà, quella era la realtà e al destino non c’era via di scampo.
«Ho paura di ciò che sarò costretta a fare per sopravvivere.» disse infine, con gli occhi che si facevano lucidi come specchi.
«Se solo fossi reale mio re, mi salveresti?»
Il re la osservò dargli nuovamente le spalle e sparire nella boscaglia.
«Aspetta!» avrebbe voluto gridare. «Non lasciarmi qui a marcire!»
Quando quella notte la voce gli domandò se si fosse ravveduto il re finalmente rispose.
«Mi pento!» ruggì in tono disperato, ma quella gli intimò duramente di non mentire.
La nuova sensazione di malessere del re crebbe sempre di più con l’aumentare delle visite della ragazza, che desiderava soltanto bearsi della magnificenza della scultura, e la situazione proseguì per così tanto che alla fine il re la vide diventare donna sotto il suo sguardo.
Lei aprì il suo cuore alla statua di roccia, gli rivelò i suoi sogni, le sue ambizioni e i suoi peccati. Pianse contro il suo petto granitico quando la malattia le strappò via il padre, implorò il suo aiuto, sognando che fosse reale e che potesse donarle tutto il denaro del regno.
«Mio re, mio salvatore.» Gli ripeteva. «Se solo fossi reale!»
Divenne sempre più emaciata e gracile, gli occhi le divennero sporgenti e i suoi movimenti si fecero lenti e deboli.
Il re finì per affezionarsi a quella creatura, al suono musicale della sua voce, al suo viso sporco e alle sue mani che non smettevamo mai di curare il suo involucro maledetto.
Lei gli ricordava che apparteneva ancora al mondo dei vivi, che non tutto era perduto.
Il re allora prese a rispondere ogni notte alla domanda della possente voce, ma quella continuò a schernirlo perché non diceva il vero.
Una nuova paura crebbe in lui, sapeva che se non fosse riuscito a liberarsi da quel castigo la ragazza sarebbe morta di fame, proprio lì, ai suoi piedi, e che dunque sarebbe stato costretto a vedere il suo corpo minuto putrefarsi per l’eternità.
«Quanto vorrei che fossi reale mio re.» gli diceva sorridendo. «Quanto ti amerei se tu lo fossi, anche se non so come potrei amarti più di quanto non faccia già.»
Il re, che non conosceva l’amore, non riusciva a comprendere i sentimenti che lei provava.
Il suo era soltanto un desiderio egoistico, era terrorizzato all’idea della solitudine e per questo avrebbe fatto di tutto, persino aiutare quella povera stracciona miserabile.
Lei al contrario, l’amava davvero, o meglio amava l’idea di lui.
Fantasticava sull’uomo rappresentato dalla statua, ci vedeva un re giusto e compassionevole, un eroe valoroso degno delle migliori lodi, l’uomo dal cuore puro che l’avrebbe salvata.
Un giorno la donna prese coraggio e si arrampicò sul basamento.
Si aggrappò ai braccioli dello scranno e premette le labbra morbide contro quelle fredde e dure della statua. Restò in attesa di un segno, sperando che accadesse qualcosa, e alla fine udì un suono cupo, simile a un tonfo.
Tump, tump.
Qualcosa si agitava all’interno del busto della scultura, la ragazza fece un sorriso scaltro e disse: «Forse puoi davvero salvarmi mio re di roccia.»
Incredibilmente il suo cuore marcio aveva ripreso a battere, l’involucro di roccia gli stava improvvisamente stretto, lo sentiva creparsi e sussultare come se stesse per cedere.
Il re credette che era stato l’amore di quella sprovveduta a salvarlo. Attese impaziente la notte e sopportò le torture come non aveva mai fatto prima, carico di aspettative e speranza.
Quando arrivò il momento disse alla voce, «Liberami! Non sono più tuo prigioniero!»
Quella gli chiese lo stesso se si fosse pentito ma il re mentì di nuovo.
«La maledizione può essere spezzata solo attraverso la redenzione! Vai incontro alla mano del destino grande re!» tuonò e lo lasciò com’era.
La mattina seguente la donna tornò stringendo tra le mani un piccone. Mentre si avvicinava cauta alla statua, il re notò in lei qualcosa di diverso, un luccichio bramoso negli occhi.
«E pensare che ho avuto la risposta sotto agli occhi per così tanto!» disse felice.
Il re credette che la donna avesse trovato il modo per liberarlo e attese fiducioso.
Il primo colpo gli squarciò il petto, la fitta di dolore lo attraversò per tutto il corpo, urlò per il raccapriccio. La donna spazzò via le schegge di roccia e si preparò a colpire nuovamente.
Per così tanto aveva amato quella statua che distruggerla le procurava una profonda malinconia, un dolore quasi fisico, ma aveva bisogno di sapere se davvero celava delle ricchezze come credeva, se nascondeva un tesoro al suo interno.
Il secondo colpo andò più affondo, il piccone si portò dietro un pezzo di roccia, lei allora udì un grido, ma pensò che si trattasse degli animali che infestavano la foresta.
Colpì nuovamente e l’arma affondò in qualcosa di morbido, improvvisamente un liquido scarlatto e viscoso prese a uscire dal foro. La donna gridò e gettò via il piccone.
La statua divenne uomo, il re si accasciò sul trono annaspando, una mano premuta sullo squarcio nel petto. Guardò la donna, ma quella aveva occhi solo per l’oro della sua corona che avrebbe potuto salvarla dalla miseria.
Boccheggiando, spalancò la bocca per implorare pietà, ma lei non gliene diede il tempo, afferrò l’attrezzo e tra le lacrime glielo conficcò nel cuore.
Con mani tremanti gli sfilò la corona dalla testa, la strinse a sé, le si aggrappò, per poi dargli le spalle e andare incontro a un destino migliore.

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Recensione Scholomance Lezioni Pericolose, Naomi Novik

“Was I starting to feel evil? Yes. Now I was worrying I’d be turned to the dark side by too much crochet.”

Trama: La Scholomance è una scuola di magia diversa da tutte le altre. Qui non esistono insegnanti né vacanze, e non è possibile riuscire a stringere amicizie disinteressate perché gli unici legami che si possono costruire sono strategici. Soprattutto, è una scuola dove il fallimento è sinonimo di morte certa (sul serio!). Le regole, alla Scholomance, sono drammaticamente semplici: non devi mai aggirarti da solo per i corridoi della scuola. E devi prestare continua attenzione ai mangia-anime, pericolose creature mostruose che si annidano ovunque. Sopravvivere è più importante di qualsiasi voto. Una volta entrato nella scuola, infatti, hai solo due modi per uscirne: diplomarti o morire! Ma l’ingresso alla Scholomance di una nuova studentessa, El, è destinato a cambiare le carte in tavola e a portare alla luce alcuni segreti dell’istituto. Galadriel “El” Higgins, infatti, è straordinariamente dotata. Forse, tra tutti gli studenti, è l’unica preparata a una scuola tanto pericolosa. Pur non avendo dalla sua un gran numero di alleati – la maggior parte degli studenti la tiene a distanza perché di lei ha molta paura e perché non è quel che si dice una ragazza amabile – e non incarnando esattamente l’idea di eroina senza macchia, potrebbe senza troppi sforzi evocare un potere oscuro così forte da radere al suolo intere montagne e annientare milioni di persone ignare e innocenti. Per lei, infatti, sarebbe un gioco da ragazzi usare la sua magia per sbarazzarsi una volta per tutte dei mostri che infestano la scuola e che attendono la notte per aggredire e uccidere i suoi compagni. Il problema non proprio trascurabile è che farvi ricorso potrebbe portare alla morte di tutti gli altri studenti. Con un’impeccabile maestria, Naomi Novik ha creato una scuola che pullula di una magia che non avete mai visto prima e un’eroina così atipica e ricca di sfumature che vivrà a lungo nei vostri cuori e nelle vostre menti.

Dopo aver amato lo stile di Naomi Novik in Cuore Oscuro non potevo lasciarmi sfuggire questa nuova uscita. Scholomance-Lezioni Pericolose è il primo libro di una nuova trilogia dell’autrice, pubblicato il 7 Settembre dalla Mondadori.
Il libro è ispirato alla leggenda rumena della Scholomance, una scuola sotteranea di magia nera situata nella regione della Transilvania, secondo il folklore gestita dal diavolo, gli studenti restavano lontano dalla luce del sole per tutti e sette gli anni di studio.
Il secondo libro della trilogia, The Last Graduate verrà pubblicato il 28 Settembre in lingua originale.

Harry Potter incontra Hunger Games in un worldbuilding complesso e sfaccettato, magia, oscure atmosfere Dark Academia si fondono con strategia e lotta alla sopravvivenza.
La Scholomance è una scuola di magia particolare, dove l’importante non è tanto imparare quanto sopravvivere. Attorno ad essa l’autrice crea un alone di mistero, a partire dalle stanze degli studenti che affacciano su una specie di sconosciuto vuoto, ai mangia-anime che si annidano negli angoli più bui e nei posti più impensati, pronti a divorare gli studenti e il loro mana. Ciò che mi ha colpito di più del worldbuilding è la struttura della scuola, che ricorda i gironi dell’inferno dantesco, è infatti formata da una serie di anelli sovrapposti, dal più alto, contenente i dormitori degli studenti più giovani, al più basso, dove si trovano quelli degli studenti più anziani che dovranno diplomarsi attraversando la bolgia di creature mostruose in attesa sotto l’ultimo livello.

Alla Scholomance individualismo è la parole chiave, come ci dimostra Galadriel, El, la protagonista. Ognuno pensa per sé, elaborando ciniche strategie per sopravvivere e per accumulare il mana necessario per sopravvivere al diploma. Questo libro è il trionfo dei personaggi moralmente grigi, che ragionano secondo la logica del meglio tu che io, tanto che pare di essere finiti dritti nella Sala Comune dei Serpeverde. L’unico a fare eccezione è Orion, che grazie al suo particolare potere, cerca di salvare più studenti possibili.
El è una prescelta singolare, possiede un formidabile potere oscuro e pericoloso che, se usato senza attenzione, potrebbe portare alla morte di tutti gli studenti della scuola.
La storia è narrata dal suo punto di vista, in prima persona.

Il fatto che abbia iniziato questa recensione partendo dal contesto è sintomo del fatto che questo libro mi ha decisamente deluso, o meglio annoiato. Il worldbuilding è qualcosa di pazzesco, l’ho sinceramente adorato ed è evidente che è stato studiato fin nei minimi dettagli, ma al contempo il suo potenziale non è stato pienamente sfruttato.

Ciò che disturba maggiormente è lo stile di scrittura che richiede un livello di attenzione e concentrazione sempre altissimo, poco fluido e con pochissimi dialoghi, pieno zeppo di infodump celati in lunghissimi flussi di coscienza della protagonista, di cui spesso faticavo a ritrovare il filo perché distratta dalla noia.
Solitamente mi piace conoscere i dettagli di un mondo immaginario, anche quelli più noiosi, ma non quando costituiscono la maggior parte del testo come in questo caso, oscurando e sottraendo tempo ai fatti e alla scoperta dei personaggi.
Perché spiegarlo quando puoi semplicemente mostrarlo con lo svolgersi della trama?
Si inizia a respirare solo verso la fine, dove fortunatamente questo bombardamento di informazioni viene frenato per lasciare, finalmente, spazio a un po’ d’azione.

Un’altra delusione è stata la trama, in cui si avverte l’assenza di qualcosa un più, un mistero, una nemesi, qualcosa che dia una spinta in più alla storia, e per i personaggi che non hanno modo di svilupparsi e farsi conoscere.

In conclusione questo primo libro è il classico libro introduttivo, pieno zeppo di nozioni, con tantissimo potenziale che per adesso risulta sprecato. Non l’ho completamente detestato, infatti molte parti mi hanno affascinata e incuriosita e sono comunque curiosa di leggere il seguito, visto il cliffhanger finale, dato che ho adorato l’ambientazione e che mi piacerebbe saperne di più sui personaggi.

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Racconto: L’uomo che perse la testa

Buongiorno lettori, oggi voglio condividere con voi un’altra delle mie passioni: la scrittura. Uno dei miei sogni nel cassetto è proprio quello di riuscire a pubblicare un giorno il libro a cui sto lavorando da un pò, nel frattempo mi diverto a scrivere qualche racconto, con questo in particolare ho partecipato a un concorso letterario che si tiene nella mia Regione, il Premio Buldrini, e sono rientrata tra i finalisti.

Ho deciso di condividerlo con voi per farmi conoscere meglio, e soprattutto per sentire le vostre opinioni in merito, quindi se vi fa piacere, fatemi sapere cosa ne pensate.

Titolo: L’uomo che perse la testa Autore: Moccia Chiara

L’uomo era morto, di questo ne era certo.
All’improvviso, un bel giorno d’estate, un vecchio creditore, o forse qualcuno che aveva derubato, non ricordava bene, mandò qualcuno per accopparlo.
Il sicario (che sia maledetto!) colto da un singolare lampo di genio, scelse una scure per portare a termine il suo mandato. E fu così che senza tante cerimonie gli recise la testa dal collo.
L’uomo, che ormai, in realtà, era più uno spirito che un uomo, vegliò i suoi resti in attesa che qualcuno li trovasse e desse l’allarme.
Non che avesse una famiglia a cui sarebbe mancato, né amici o conoscenti da osservare mentre si straziavano per la sua perdita, però, prima di passare oltre il velo, desiderava assicurarsi che il suo trapasso fosse compiuto secondo le regole, com’era buon costume tra la brava gente del suo paese.
La prima a trovarlo fu la lavandaia, che tornava dal fiume con la cesta del bucato.
La donna, bassa e chiatta come una zucca, quando vide la sua grossa testa tranciata dal suo secco corpo, rotolata a faccia ingiù in mezzo al suo stesso sangue, lanciò un gridolino acuto e svenne.
Dopo poco giunse il figlio della lavandaia, preoccupato perché la donna non faceva ritorno.
Il ragazzo ebbe la decenza di non perdere i sensi, come aveva fatto la madre, ma preferì vomitare la colazione (latte e pane e uova sode) e poi correre giù per il sentiero, con le gambe che gli arrivavano alla schiena, per dare l’allarme.
Furono chiamati i gendarmi, il medico, i becchini e pure il sindaco, che non perdeva mai occasione di pavoneggiarsi in pubblico.
Ma, ahimè, invece di commuoversi per la sua triste e macabra fine, questi si misero a deriderlo.
«Era proprio una testa calda!»
«Qualcuno avrebbe dovuto dirgli di tenere la testa sulle spalle!»
Lo spirito dell’uomo, che sorreggeva la propria testa tra le mani, per i capelli, si sentì oltraggiato.
Li maledisse uno a uno, per nome e cognome (tanto in paese si conoscevano tutti), ma scelse di proseguire comunque la sua guardia.

Dopo aver deciso che effettivamente sì, l’uomo era trapassato, i suoi resti furono affidati ai becchini.
Da subito si pose il problema di come sistemare il corpo per la veglia funeraria.
Vennero chiamati fabbri, artigiani e persino i grandi filosofi del paese, che avevano l’usanza di riempirsi la bocca con le lodi sui propri sofismi fuori dal comune.
Tutti avevano una soluzione da proporre per far combaciare le sue parti.
Si provò per giorni, dalla colla, ai chiodi, dalle bende di garza alle ricche sciarpe di seta.
Poi furono chiamate le sarte, con ago e filo, e il macellaio, che legava gli arrosti.
Tutti i tentativi furono vani, tanto il colpo era stato netto e preciso, e ben presto il tanfo fu tale che si persero le speranze e si decise di rimandarlo al creatore così com’era.
Il sindaco pagò il suo feretro, deciso a togliersi il disagio di averlo tra i piedi (e già che c’era, accaparrarsi il beneplacito degli elettori).
Gli venne data una cassa di legno, né troppo lussuosa, né troppo sobria, con gonfi cuscini d’organza bianca (che avrebbe preferito rossi) e maniglie laccate d’oro.
Il corpo fu sistemato come al solito, con le braccia incrociate sul petto, mentre sulla sua grossa testa recisa, fu passato uno spesso strato di cerone, per renderla più colorita.
La cassa fu presa in spalla dai becchini e già in quel momento montò il suo disappunto, uno era più basso, due più alti, un altro di altezza anche troppo nella media.
Il corteo partì per la chiesa, e l’uomo fu sorpreso nel vedere che tutti gli abitanti del paese si erano presentati per scortarlo. Insomma! In vita non si erano mai presi nemmeno il disturbo di salutarlo!
La gente del posto era così, appena accadeva qualcosa di nuovo, in quel paese in cui non accadeva mai niente, non si lasciava sfuggire l’occasione e poi seguitava a parlarne per giorni e giorni finché non accadeva qualcos’altro che la scuotesse nuovamente dalla noia.
Al primo avvallamento della strada, si udì un tonfo provenire dal feretro e poi un secondo a una curva particolarmente stretta. Mentre venivano saliti i gradini della chiesa ci furono più Toc, toc!, prodotti dalla sua testa che rotolava nella cassa.

«Chi è?» chiese il becchino nella media suscitando l’ilarità nel corteo, tanto che molti varcarono le porte mantenendosi le pance e le dentiere.
Il parroco fece una breve omelia e anch’egli aveva le lacrime agli occhi per le risate trattenute.
L’uomo che aveva perso la testa avrebbe voluto aggredirlo proprio lì, sul pulpito, ma il suo stato non glielo permetteva. Se ne uscì persino con un: «Oggi siamo tutti a pezzi!» che fece ridere pure le zitelle in prima fila. Così lo seppellirono col sorriso sulle labbra, tanto che pareva di essere a una maledetta festa di quartiere!
Fu scelta una sua foto (in cui era venuto discretamente) e l’epitaffio da imprimere sulla lapide di marmo: “Una vita a metà non è degna di essere vissuta!”
Quella notte i ragazzini del paese (che selvaggi!) si introdussero nel cimitero con un paio di forbici appuntite.
Strappata via la foto dalla sede, gli tagliarono la testa per poi sistemargliela sotto il braccio, non contenti, recisero anche tutte le teste dei fiori (che i più ricchi avevano pagato per fare bella figura).
Il giorno seguente il custode, trovatosi di fronte l’ennesima novità, rise di gusto e mandò a chiamare amici e parenti e conoscenti per mostrare il misfatto.
Ben presto partì una vera e propria processione dal paese per andare a vedere e farsi due risate, tanto che il custode in seguito si pentì di non aver fatto pagare l’ingresso.
«Papà mi porti al cimitero?» chiedevano i bambini.
«Incontriamoci dall’uomo senza testa.» Sussurravano gli amanti.
L’uomo senza testa non ebbe riposo nemmeno da sepolto e la terra non fu affatto lieve come gli avevano promesso!
Gli artigiani e i terracottai ebbero il buon gusto di sfruttare il momento e così, sin da subito, iniziò una vasta produzione di vasi e tazze e bicchieri e portaoggetti a forma di testa mozza.
Furono scritte poesie e racconti (tra cui questo), in cui l’uomo divenne un cavaliere senza macchia, un perfido mago, un politico di successo e pure un povero mendicante ucciso ingiustamente. L’uomo continuò a maledire ogni visitatore, sputò imprecazioni (dalla bocca che dondolava insieme alla testa tra le sue braccia) e ben presto si dimenticò di dover passare il velo.
Non lasciarono in pace nemmeno il suo corpo, per la miseria!
Persino tra le bestie striscianti la sua fama si diffuse a macchia d’olio e subito accorsero in massa per accaparrarsi un pezzo della sua famosa testa recisa, manco fosse un ostello!
Una famiglia di vermi scelse il suo cervello come appartamento, un ragno il suo naso come caverna e le blatte le sue maledette orecchie come rifugio dall’afa.
L’uomo, dopo una settimana, stanco di quell’affronto senza fine, decise di scatenare la sua ira sul paese.
Dove si era mai visto un branco di viventi che perseguitava uno spirito?!
Era giunto il momento di rimettere le cose al proprio posto.
Attesa la notte e afferrata la sua testa per le orecchie, si diresse dal primo becchino.
Lo trovò nel letto che russava e sbavava come un cane, l’uomo gli sventagliò la testa sotto al naso e urlò, facendo tremare i vetri delle finestre.
Il becchino si svegliò e quando lo notò, ai piedi del letto, scoppiò a ridere (pensando che in paese se ne fossero inventati un’altra!) e così fecero anche tutti gli altri, pure il prete (che per la miseria avrebbe dovuto accorgersene!) rimise il rosario in saccoccia e si rigirò sbadigliando tra le lenzuola.
L’uomo, ormai incapace di proseguire oltre il velo, allora si arrese e attese che i maledetti si dimenticassero di lui, ma così non fu.
Passato il primo anno venne indetta la giornata del senza testa ed ebbe tanto successo che se ne organizzò un’altra anche l’anno seguente, e fu così anche per gli anni a venire.
La gente accorse da ogni dove per farsi beffe di lui, la città stessa stava rifiorendo sulla sua morte!
Si diceva che la media della felicità si fosse alzata talmente tanto dal suo decesso, che gli abitanti dei paesi vicini si domandavano se non fosse il caso di decapitare qualcuno.
L’uomo senza testa se ne stava là, per le strade del paese, a braccia incrociate, a guardarli con aria annoiata e sufficiente da una roccia su cui aveva sistemato la propria testa, in attesa.
Furono creati altri oggetti (che sciacalli!): pupazzi con la testa sottobraccio per i bambini, boccette di profumi a forma di testa mozza per le donne più esigenti, mele intagliate per palati raffinati, reggi porta per le taverne fatiscenti, portaombrelli e pure un maledetto posacenere per il sindaco!
Gli fu dedicata una targa, affissa sulla porta del comune e sui cartelli all’ingresso del paese: “Un posto bello da perdere la testa!”
L’uomo era l’unico a soffrire, a piangere e disperarsi, finché un giorno, finalmente, il falegname del paese, mentre stava lavorando a un delizioso tavolino da tè, non ebbe un lieve capogiro e crepò segandosi un braccio.

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Recensione Storie incredibili delle Olimpiadi e Approfondimento Donne nelle Olimpiadi

“La strada per le Olimpiadi conduce – alla fine – a ciò che di meglio c’è dentro di noi.” Jesse Owens

Buongiorno lettori! Oggi vorrei parlarvi di Storie incredibili delle Olimpiadi di Luciano Wernicke, pubblicato da DeAgostini, uscito nelle librerie il 6 Luglio.

Prima di iniziare, ci tengo a ringraziare Yelena del Blog la Libreria di Yely per aver organizzato questo bellissimo Blog Party in occasione delle Olimpiadi di Tokyo 2021, la cui cerimonia d’apertura si terrà proprio domani 23 Luglio, e ovviamente per avermi invitata, e la disponibilissima Casa Editrice DeA Planeta Libri per averci fornito le copie del libro.
Al termine della recensione troverete un mio piccolo approfondimento sulla storia delle donne nelle Olimpiadi.

Centinaia di aneddoti curiosi e sorprendenti sui Giochi olimpici estivi, dal 1896 al 2016: le storie, le rivalità, le emozioni, le sorprese, i sogni di gloria e le beffe del destino. Medaglie e sudore, bandiere e infortuni, volti esultanti, pianti e pettegolezzi succosi. Le Olimpiadi sono l’evento sportivo più importante e coinvolgente del mondo, la competizione che ogni quattro anni (ma a volte, come ci siamo accorti nel 2020, anche qualcuno in più) fa trattenere il fiato agli appassionati di ogni angolo dei cinque continenti. Per la bellezza dello sport, ma anche per tutto ciò che ci sta dietro: oltre i medaglieri e gli albi d’oro c’è un ricco patrimonio di storie, emozioni, rivalità, imprevisti, sorprese e beffe atroci. Perché anche agli atleti migliori del mondo, per quanto possano sembrarci moderni dèi dell’Olimpo, capita di smarrire proprio la valigia con l’attrezzatura fondamentale per gareggiare, o di alzare troppo il gomito nel momento più sbagliato; di ammalarsi, innamorarsi, spaventarsi. o di non svegliarsi in tempo. In questo inesauribile repertorio di storie, scopriamo che si può perdere una medaglia a causa del traffico, o vincerla ma restare totalmente ignoti; che un corridore è scomparso nel nulla durante una gara, e un turista si è ritrovato vincitore su un podio; che un pugile ha perso due volte lo stesso incontro, e che più di un’atleta ha gareggiato, e vinto, mentre era incinta; che ci sono stati gesti di commovente generosità e di imbarazzante bassezza, e che i trucchi per sfuggire all’antidoping possono avere effetti ridicoli e disastrosi. Tra aneddoti inaspettati ed episodi che sembrano usciti da un film hollywoodiano, Storie incredibili delle Olimpiadi racconta con cura e passione tutta la gloria e l’umanità della competizione più bella del mondo.

Storie incredibili delle Olimpiadi racchiude aneddoti curiosi, fatti particolari e record dalle prime Olimpiadi, per intenderci dalla Grecia Antica, ad oggi, Rio de Janeiro 2016.
Con questo libro Luciano Wernicke omaggia l’evento sportivo per eccellenza, amato e celebrato in tutto il mondo dai patiti dello sport e anche dai neofiti, creando una raccolta vibrante e alla portata di tutti, da non lasciarsi sfuggire.

Dopo un primo capitolo introduttivo, che ripercorre la storia delle Olimpiadi narrandone le particolarità e i fatti salienti, il libro si struttura in capitoli, ognuno di questi racconta un’edizione diversa dei Giochi estivi in ordine cronologico, dalle prime Olimpiadi moderne che si tennero ad Atene 1869 alle più recenti, Rio de Janeiro 2016.
A sua volta i capitoli successivi seguono tutti lo stesso schema, dopo una breve introduzione generale sull’anno di riferimento che concerne l’organizzazione e gli eventi storici salienti, l’autore analizza i singoli aneddoti che si riferiscono a uno specifico atleta o evento.

Leggere questo libro è stato come avere un pezzo di storia tra le mani, scoprire donne e uomini, purtroppo nella maggior parte dei casi dimenticati, che hanno fatto la storia dello sport, senza però rinunciare al divertimento.
Lo stile dell’autore è difatti conciso e mordace, ironico, ogni aneddoto si presenta come una piccola perla da scoprire, invogliandoti a proseguire nella lettura.

Mi sono divertita tantissimo a scoprire le curiosità che l’autore ci propone, ad esempio, l’interessante storia di Dorando Pietri, corridore italiano che, dopo una sfiancante maratona nelle Olimpiadi del 1908, cadde sfinito a cento metri dal traguardo, l’uomo suscitò la compassione del pubblico, tanto che uno dei giudici e un giornalista (leggenda vuole che si tratti niente di meno che di Arthur Conan Doyle) lo afferrarono per un braccio ciascuno e lo spinsero al di là del traguardo, oppure la storia della pattinatrice svedese Magda Julin-Mauroy che ad Anversa 1920 fu l’unica donna nella storia delle Olimpiadi a vincere la medaglia d’oro mentre era incinta.
Il libro non trascura di menzionare anche i lati più oscuri che hanno coinvolto l’evento sportivo, dalla misoginia alla discriminazione razziale, dall’esclusione classista nei primi anni dei meno abbienti all’attacco terroristico avvenuto a Monaco nel 1972, o lo sfortunato incendio di Parigi 1924.

Storia incredibile delle Olimpiadi è una raccolta completa e dettagliata del famoso evento estivo, capace di intrattenere e coinvolgere il lettore, spesso, durante la lettura, ho avvertito la necessità di fermarmi per cercare su internet gli atleti citati, per dare un volto ai nomi che leggevo sulle pagine, se vi capiterà di leggerlo vi consiglio di fare lo stesso.
In conclusione consiglio a tutti di leggere questo libro, una raccolta perfetta per tutte le età, ricca di aneddoti divertenti e storie che non dovrebbero essere dimenticate.

APPROFONDIMENTO : Donne nelle Olimpiadi

Il tema delle donne e della rivendicazione dei loro diritti nello sport, come quello della lotta contro la misoginia e il sessismo, continua ad essere in questo e altri settori, purtroppo, sempre attuale.
Da ultimo lo sconvolgente e triste caso della nazionale femminile norvegese di handball su subbia dove le atlete sono state multate perché si sono rifiutate di giocare indossando la tradizionale divisa bikini e si sono presentate in campo con pantaloncini più lunghi, in occasione della partita dell’Europeo in Bulgaria.
Il provvedimento sessista è stato emanato dalla Federazione Europea, che ha sanzionato ogni ragazza al pagamento di una multa da 1500 euro.
La storia delle donne nelle Olimpiadi non è più fortunata.

Nell’Antica Grecia, nel 776 a.C., non esistevano nei Giochi competizioni riservate alle donne o a cui queste potevano accedere. Le sacerdotesse erano le uniche a cui era permesso partecipare a una manifestazione sportiva e artistica in onore della dea Era che, peraltro, si teneva in un diverso periodo dell’anno.
Le donne nubili e le bambine potevano assistere come spettatrici a Olimpia, mentre alle donne sposate era negato questo privilegio pena, in caso contrario, la morte.
L’unico caso di trasgressione di cui si ha conoscenza riguarda Callipatera, una donna che si travestì da uomo per assistere alla gara di corsa del figlio Pisidoro.
Quando il giovane vinse, la donna gettandosi su di lui per abbracciarlo perse il velo, rivelando così la sua identità, fortunatamente fu graziata per il fatto di essere figlia, sorella e madre di campioni.

Nemmeno nelle prime Olimpiadi moderne, tenutesi ad Atene nel 1896, fu consentita la partecipazione femminile, nascondendosi dietro il voler mantenere la tradizione classica che prevedeva esclusivamente atleti di sesso maschile.
Il barone Pierre de Coubertin, ideatore dei Giochi olimpici moderni, non era favorevole alla partecipazione delle donne ai Giochi o nello sport in generale,
credendo che il più grande obiettivo nella vita di una donna fosse quello di incoraggiare i suoi figli a distinguersi nello sport e applaudire lo sforzo degli uomini.
Una maratoneta greca di umili origini, Stamáta Revíthi, conosciuta anche come Melpomene, ufficialmente venne respinta in quanto la scadenza dell’iscrizione alla gara era trascorsa, ma secondo gli storici il problema fu il sesso e la mentalità misogina dell’epoca.
Stamáta non si arrese e il giorno seguente riuscì a gareggiare non ufficialmente, correndo da sola la gara maschile.

Bisognò attendere le Olimpiadi di Parigi del 1900, sullo sfondo dell’Esposizione universale, perché le donne potessero finalmente entrare nella competizione dei Giochi.
22 donne, che rappresentavano solamente il 2% di tutti i concorrenti, ruppero la tradizione misogina creata da de Coubertin, competendo finalmente nel tennis, nella vela, nell’equitazione, nel golf e nel croquet. Il tennis e il golf erano le uniche discipline in cui le donne potevano competere in gare esclusivamente femminili.
La svizzera Hélène de Pourtalès divenne la prima campionessa olimpica femminile, come atleta della squadra vincente nella gara di vela, il 22 maggio 1900, mentre la tennista britannica Charlotte Cooper fu la prima donna a vincere l’oro olimpico in una gara individuale.
Le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 furono altrettanto importanti, per la prima volta comparvero gare di atletica leggera riservate alle donne.

La prima atleta italiana a vincere una medaglia d’oro ai Giochi olimpici è stata Ondina Valla, negli 80 metri a ostacoli a Berlino nel 1936.

Un punto di svolta nella partecipazione femminile si ebbe alle Olimpiadi del Messico del 1968, su 7200 atleti, 845 erano donne, da allora la presenza delle donne ha continuato ad aumentare fino ad arrivare alle Olimpiadi di Rio del 2016 in cui le donne costituivano il 45%.
I Giochi olimpici di Londra 2012 sono stati i primi in cui le donne hanno partecipato in tutte le discipline grazie all’introduzione della boxe femminile
.

Con questi numeri e date che fanno sicuramente riflettere e sperare in un futuro migliore, vi ringrazio per essere arrivati fin qui e passo il testimone alle mie colleghe blogger.

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La Repubblica del Drago recensione

“This was not a world of men. It was a world of gods, a time of great powers. It was the era of divinity walking in man, of wind and water and fire. And in warfare, she who held the power asymmetry was the inevitable victor.”

La Repubblica del Drago è il secondo volume della trilogia Epic Fantasy La Guerra dei Papaveri di R. F. Kuang che fonde e rivisita la cultura e la storia nipponica con un mondo fantastico e spirituale popolato da Dei e Mostri.

Dimenticate eroi valorosi e gesta romantiche perché non ne troverete. In questa trilogia non c’è spazio per il finto buonismo, per moraleggianti questioni d’etica o di onore, ma solo per la brutalità e gli orrori della guerra, per ciò che dev’essere fatto, che va fatto per salvarsi la pelle. Tra strategie che richiamano L’arte della guerra di Sun Tzu, barbare tecniche di guerriglia storicamente utilizzate, intrighi politici, tradimenti, battaglie e massacri, La Repubblica del Drago si dimostra un libro crudo e imperdibile, vivido e coinvolgente all’inverosimile.

Dopo aver amato la Guerra dei Papaveri non vedevo l’ora di leggere il seguito e devo dire che questo secondo libro mi ha completamente conquistata. Anche se all’inizio ho avvertito la mancanza dell’atmosfera competitiva creata dalla Sinegard e di ciò che la nostra protagonista scopre grazie agli studi, La Repubblica del Drago è a mio parere allo stesso livello se non superiore al primo libro, grazie a una maggiore dose di azione e colpi di scena entriamo completamente nel vivo delle atmosfere cupe e sanguinarie del Nikan.

Lo stile della Kuang ha un che di ipnotico a cui non so proprio resistere, era da tempo che un libro non mi prendeva tanto, quando smettevo di leggere continuavo a pensarci e una volta raggiunte le ultime pagine mi sono ritrovata a desiderare che la storia non finisse mai.

È la guerra la vera protagonista di questa trilogia, raccontata in modo chiaro e diretto, le tribolazioni e le sofferenze che porta, il sudario di morte che l’accompagna, gli interrogativi morali che fa sorgere, ma al tempo stesso le menti sedute al tavolo delle strategie, la ferocia degli esplosivi chimici, gli inclementi affondi delle spade, la spietatezza necessaria a sopravvivere.

Dopo gli accadimenti del primo libro ritroviamo una Rin alla prese con i propri demoni, reduce da eventi che l’hanno segnata in modo irreversibile, animata esclusivamente dalla furia cieca della vendetta. Rin sceglie di offuscare la propria mente pur di non pensare agli orrori vissuti, si mostra incosciente, debole, confusa, vorrebbe farsi da parte ed è alla disperata ricerca di qualcuno che possa indicarle la strada, che scelga al suo posto.

Il ritmo del libro sembra seguire proprio lo stato d’animo della protagonista, nella prima parte risulta leggermente lento e difficoltoso mentre nella seconda, quando Rin finalmente trova un obiettivo e uno sfogo in ciò che sa fare meglio, diventa incalzante e coinvolgente.

Ho apprezzato moltissimo l’evoluzione della protagonista rispetto al primo libro, Rin è diventata spietata, ha completamente abbracciato se stessa e il suo potenziale, mettendo da parte ogni recriminazione morale. I protagonisti perdono ogni parvenza di eroismo, diventando sempre più grigi e allontanandosi definitivamente dai luoghi comuni della morale, estremamente realistici. In questo secondo volume anche i personaggi secondari trovano finalmente il proprio posto, l’autrice li fa percepire al meglio, sicuramente un punto a favore rispetto al primo libro.

Il worldbuilding si conferma come qualcosa che funziona egregiamente, l’autrice ci mostra il Nikan come un impero spaccato da profonde divisioni tra Nord e Sud, acuisce le differenze tra i popoli anche rapportando gli stessi agli Esperiani (nuovo ingresso tra i personaggi), soldati e religiosi che per tratti somatici e cultura ricordano gli occidentali. Allo stesso modo, l’elemento fantastico è perfettamente integrato, ho amato ogni scena in cui si fa riferimento al mondo degli Dei e al potere degli sciamani.

Il finale, l’ultima trentina di pagine, è stato qualcosa di tremendo e scioccante, il perfetto apice di questo crescendo di tensione e sofferenza. Una volta voltata l’ultima pagina ho avuto bisogno di prendere del tempo per riprendermi e mettere in ordine le idee, quest’autrice riesce a toccare e scombussolare le mie emozioni come pochi.

In conclusione, La Repubblica del Drago è un libro crudo, forte e al tempo stesso emozionante, tratta tematiche importanti già affrontate ne La Guerra dei Papaveri, è ricco di azione, scene mozzafiato ed eventi terribili. Se il primo libro era stato un pugno nello stomaco, il secondo è una stilettata dritta al cuore, un libro intenso, a tratti macabro e terrorizzante, dissacrante, devastante e al tempo stesso magnifico.


“Between us, we have the fire and the water. I’m quite sure that together, we can take on the wind.”

SPOILER

Trama: Donna. Guerriera. Arma. Dea. Già tre volte nella sua storia il Nikan ha dovuto combattere per sopravvivere alle sanguinarie Guerre dei papaveri. Il terzo conflitto si è appena spento, ma Rin, guerriera e sciamana, non può dimenticare le atrocità che ha dovuto commettere per salvare il suo popolo. E ora sta scappando, nel tentativo di sfuggire alla dipendenza dall’oppio e agli ordini omicidi della spietata Fenice, la divinità che le ha donato i suoi straordinari poteri. Solo un desiderio la spinge a vivere: non vuole morire prima di essersi vendicata dell’Imperatrice, che ha tradito la sua patria vendendola ai nemici. E l’unico modo per farlo è allearsi con il signore di Lóng, discendente dell’ultimo Imperatore Drago, che vuole conquistare il Nikan, deporre l’Imperatrice e instaurare una repubblica. Né l’Imperatrice, né il signore di Lóng, però, sono ciò che sembrano. E più Rin va avanti, più si rende conto che per amore del Nikan dovrà usare ancora una volta il potere letale della Fenice. Non c’è niente che Rin non sia disposta a sacrificare per salvare il suo paese, e ottenere la sua vendetta. Così si getta di nuovo nella lotta. Perché in fondo lottare è ciò che sa fare meglio.

Il Nikan, in seguito alla terza Guerra dei papaveri, è un impero lacerato, affamato, devastato ma soprattutto indebolito, all’orizzonte sembra prospettarsi il momento perfetto per una ribellione, ed è proprio su questo che Yin Vaisra e i Signori della Guerra suoi alleati intendono fare leva, scatenare una Guerra Civile per deporre l’imperatrice e tutto ciò che rappresenta e instaurare la democrazia del popolo.

Rin, mentalmente e fisicamente distrutta in seguito agli esperimenti e al massacro sull’isola di Mugen, spezzata dalla Fenice, ha come unico obiettivo la vendetta, la morte dell’imperatrice Daji, che ha venduto il suo popolo consegnandolo alla Federazione. Il modo migliore per raggiungere il cuore dell’impero e il suo obiettivo è proprio allearsi con Vaisra e combattere al fianco delle sue truppe.

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Recensione: Truthwitch, Susan Dennard

“They aren’t for disguise at all. You just didn’t want to leave behind your favorite book.”

Nelle lande stregate ci sono infiniti tipi di magia: tanti quanti i modi per mettersi nei guai, come ben sanno due giovani donne molto speciali. Safiya è una Strega della Verità, ha il dono di riconoscere le menzogne. C’è chi ucciderebbe per avere quel potere, e così lei lo tiene ben nascosto, se non vuole essere usata come una pedina nello scontro tra gli imperi. Iseult invece è una Strega dei Fili: sa vedere i legami invisibili che uniscono le persone attorno a lei, ma non riesce a percepire i sentimenti che la riguardano direttamente. Le due ragazze hanno personalità complementari – impulsiva e focosa Safi, fredda e prudente Iseult – e soprattutto sono inseparabili. Tutto ciò che vogliono è essere libere di vivere le loro vite come un’avventura continua, ma le ombre della guerra si addensano sulle Lande Stregate. Con l’aiuto dell’astuto principe Merik, Safi e Iseult si troveranno a combattere contro imperatori, mercenari e uno Stregone del Sangue votato alla vendetta, decisi a tutto pur di dominare il potere di una Strega della Verità.

Truthwitch è il primo capitolo della trilogia fantasy YA Witchlands della scrittrice Susan Dennard. In uscita in Italia per la Oscar Mondadori, il 16 Marzo 2021, traduzione di Alessandro Vezzoli.

Questo libro mi ha piacevolmente sorpresa. Nonostante la presenza di più di un elemento negativo, il rapido concatenarsi di eventi e azione, insieme al giusto mix di magia e mistero, mi ha portata a non riuscire a sollevare lo sguardo dalle pagine, alimentando la curiosità e la voglia di proseguire nella lettura.

Il libro si apre con la conclusione della Tregua dei 20 anni, dopo venti anni di pace nel continente, le nazioni non sembrano pronte a rinnovare la tregua, prospettiva che sembra promettere guerra e distruzione.

Le descrizioni e i personaggi mi hanno ricordato la saga del Trono di Ghiaccio della Maas, mentre alcuni dei poteri delle streghe mi hanno fatto pensare al Grishaverse della Bardugo, anche se tutti e tre non potrebbero essere più diversi.

Nodo centrale sono sicuramente i personaggi e i rapporti che si instaurano tra essi, difatti la narrazione segue i loro diversi punti di vista.

L’autrice pone l’accento su temi come il valore dell’amicizia, argomento che personalmente adoro trovare in uno YA, in quanto spesso oscurato a favore della predilezione per i rapporti romantici. Safy e Iseult, le due protagoniste, sono sorelle di filo, legate da un legame unico e indissolubile, anche se non potrebbero essere più diverse.

Safy è impulsiva, estroversa, passionale, una strega della verità, capace di riconoscere appunto la verità in chiunque, è costretta a nascondere il suo potere per evitare che qualcuno possa impossessarsene. Nonostante le origini nobili, sin da piccola è stata addestrata insieme a Iseult a combattere per sopravvivere.

Iseult è sicuramente il mio personaggio preferito tra le due, riservata, costretta a nascondere le proprie emozioni a causa della sua appartenenza alle streghe dei fili, è in grado di vedere i fili delle persone che rappresentano le emozioni e i legami, sempre pronta ad offrire sostegno e solidità all’amica, fuggita dalla sua tribù nomasti viene costantemente discriminata a causa delle sue origini.

Merik, ammiraglio e principe di Nubrevna, è uno stregone del vento in grado di manipalare e creare il vento, capacità che gli permette persino di volare, è un altro protagonista, un idealista che combatte per un futuro migliore per la sua patria, una terra devastata dalle ultime guerre, affamata, arida.

Ultimo, Aeduan, monaco mercenario e stregone del sangue, un potere attorno al quale sono intessute leggende oscure, capace di riconoscere e tracciare l’odore del sangue di chiunque, è il personaggio che mi ha incuriosita di più, misterioso e a tratti oscuro.

I personaggi sono, a dirla tutta, piuttosto stereotipati, eppure ben caratterizzati.

Passando ai tasti dolenti, il world building è la cosa che mi ha convinto meno. L’azione e la rapidità di successione degli eventi comportano poche e scarne descrizioni dei diversi regni, ma anche dei diversi tipi di streghe, che invece avrei preferito più approfondite per una maggiore chiarezza complessiva, anche magari con uno schema dopo la conclusione del testo per capire quali e quanti tipi di strega ci sono. Avrei preferito che l’autrice si soffermasse di più sulle descrizioni invece di darle per scontate come se il lettore ne fosse a conoscenza. Altra nota negativa i colpi di fulmine più veloci del west, che possono anche piacere, ma che personalmente non preferisco.

Per quanto riguarda le cose che mi sono piaciute, impossibile non menzionare il rapporto tra Safi e Iseult, l’azione e gli intriganti poteri delle streghe. Truthwitch è un brillante libro introduttivo volto a farci conoscere i personaggi e il contesto, con una trama dinamica e accattivante. Piacevoli i cambi di punto di vista nella narrazione e i dialoghi, il finale da cardiopalma che ti fa desiderare di avere subito il seguito tra le mani.

In conclusione Truthwitch è un piacevole mix di intrighi politici, epiche battaglie, navi pirata, mostri leggendari, magia, dialoghi pungenti, azione, amicizia, romance. Uno Young Adult con un ritmo dinamico e coinvolgente, protagoniste coraggiose e umane, assolutamente da scoprire. Non vedo l’ora di leggere il seguito!

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Recensione: Il regno di rame, S.A. Chakraborty

“Because a lost little girl from Cairo thought she was living in some sort of fairy tale. And because for all her supposed cleverness, she couldn’t see that the dashing hero who saved her was its monster.”

La vita di Nahri è cambiata per sempre nel momento in cui ha accidentalmente evocato Dara, un misterioso jinn. Fuggita dalla sua casa al Cairo, si è ritrovata nell’abbagliante corte reale di Daevabad, immersa nelle cupe conseguenze di una battaglia devastante, e lì ha scoperto di aver bisogno di tutto il suo istinto truffaldino per sopravvivere.

Anche se accetta il suo ruolo ereditario, sa di essere intrappolata in una gabbia dorata, controllata da un sovrano che governa dal trono che una volta apparteneva alla sua famiglia: basterà un passo falso per far condannare la sua tribù.

Nel frattempo, Ali è stato esiliato per aver osato sfidare suo padre. Braccato dagli assassini, è costretto a fare affidamento sui poteri spaventosi che gli hanno donato i marid. Così facendo, però, minaccia di portare alla luce un terribile segreto che la sua famiglia ha tenuto nascosto a lungo.

Intanto, nel desolato nord, si sta sviluppando una minaccia invisibile. È una forza capace di portare una tempesta di fuoco proprio alle porte della città. Un potere che richiede l’intervento di un guerriero combattuto tra un feroce dovere a cui non potrà mai sottrarsi e una pace che teme di non meritare mai.

Il Regno di Rame è il secondo capitolo della trilogia fantasy Daevabad, scritta da S. A. Chakraborty e ambientata nell’Egitto del XVIII secolo.
Se il primo volume, La Città di Ottone, mi aveva affascinata con il suo world building, la mitologia mediorientale e una protagonista coraggiosa e intraprendente, questo secondo capitolo fa molto di più, avvicina il lettore ai personaggi e lo fa entrare nelle dinamiche interne di Daevabad, una città spaccata, sull’orlo del baratro.

Il Regno di Rame è tra i migliori libri che abbia letto finora e questa trilogia è sicuramente destinata a diventare una delle mie preferite di sempre.
L’autrice crea un mondo ricco, dettagliato, grondante magia, intrighi, tribù (che finalmente ho imparato a riconoscere), impossibile non osannare le sue descrizioni, da quelle ambientali a quelle del ricco vestiario proprio dei protagonisti, capaci di rendere vivido, vibrante e coinvolgente il testo, tanto che il lettore è portato a non abbandonare mai la lettura.

Le tematiche trattate sono tante e interessanti, tra tutte viene data molta importanza alla differenza tra innocente e colpevole, tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, una linea che si fa sempre più sottile in guerra, dove per ognuno le proprie ragioni e il proprio senso di giustizia prevalgono su quelle degli altri.
Un’altra tematica importante sono le differenze razziali che nel libro creano ingiuste spaccature nella popolazione di Daevabad, coloro che sono al potere e la nobiltà continuano a vedere come inferiori gli shafit, persone con sangue misto jiin-umano.

La trama del libro si apre con un salto temporale, ben cinque anni dopo gli accadimenti de La Città di Ottone. Questo espediente all’inizio mi aveva lasciata perplessa, ma dopo poche pagine ho trovato immediatamente la stabilità che cercavo.
Ritroviamo Nahri sposata con Muntadhir, primogenito del sovrano Ghassan Al Qahtani, pronta a fare compromessi pur di restare in vita ma non disposta a rinunciare completamente a se stessa e ai propri ideali.
Nahri non si è ancora ripresa dalla morte di Dara, né dal tradimento di Alizayd.
Il palazzo le sta sempre più stretto, si sente rinchiusa in una gabbia dorata, ma continua a trovare rifugio in infermeria, dove esercita il suo potere Nahid e la sua passione.
Daevabad sembra sull’orlo di una crisi, i disordini non fanno che aumentare e le tasse si alzano sempre di più. La città di ottone è sull’orlo di una crisi che la cambierà per sempre.

In questo secondo volume centrale è l’evoluzione dei personaggi, non solo di quelli principali ma anche dei secondari. Conosciamo meglio ognuno di loro, i loro punti di vista, le loro ideologie e le giustificazioni che stanno dietro alle loro azioni, tassello importante per riuscire ad avere un quadro completo della narrazione.
Ali si riconferma il mio personaggio preferito, il giusto mix di idealismo e testardaggine, non anticipo altro perché è giusto scoprire pagina dopo pagina.
La narrazione è fluida e magnetica, impossibile sollevare lo sguardo dalle pagine.

In conclusione il Regno di Rame è il fantasy storico perfetto per chi cerca un libro ricco di dettagli, mitologia, personaggi ben costruiti, con un’eroina indimenticabile e un world building pazzesco.
Un libro opulento, ammaliante e coinvolgente che trascina il lettore in un’avventura magica e appassionante.

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Recensione: Aurora Rising, Amie Kaufman & Jay Kristoff

“Do moons choose the planets they orbit? Do planets choose their stars? Who am I to deny gravity, Aurora? When you shine brighter than an constellation in the sky?”

È l’anno 2380 e ai cadetti dell’ultimo anno dell’Aurora Academy sta per essere affidata la prima vera missione. L’allievo migliore della scuola, Tyler Jones, sa che, proprio in virtù della sua eccellenza, gli verrà concesso di comporre a suo piacimento la propria crew e per questo sogna già di reclutare la squadra perfetta. Peccato che, a causa del suo voler fare l’eroe a tutti i costi, come punizione gli vengano assegnati d’ufficio i cadetti scartati da tutti gli altri compagni. Il dramma è che non è nemmeno questo il problema principale di Ty, dato che, dopo aver risvegliato da un sonno che durava duecento anni Aurora Jie-Lin O’Malley, scopre che proprio lei potrebbe innescare una guerra millenaria e che, ironicamente, proprio lui e i suoi disperati compagni potrebbero essere l’ultima speranza per l’intera galassia.

Molte di queste stelle in realtà sono morte milioni di anni fa. Ma sono talmente distanti che la luce che hanno proiettato prima di morire non ha ancora smesso di raggiungerci. Stai guardando un cielo pieno di fantasmi 

Aurora Rising è uno young adult sci-fi, il primo della trilogia Aurora Cycle, scritta a quattro mani da Amie Kaufman e Jay Kristoff, edito in Italia dalla Mondadori.
Il secondo volume della serie, Aurora Burning, verrà pubblicato in italiano il 16 Marzo, inoltre gli scrittori hanno annunciato di star lavorando assieme alla MGM Television per la creazione di una serie tv basata sulla trilogia.

Questo libro è una combinazione di spazio, telecinesi, azione, amicizia, sentimento, battute irriverenti e stravaganti razze aliene, il cui collante è indubbiamente la squadra 312, che grazie ai variegati punti di vista dei suoi componenti, riesce a far scorrere la narrazione senza mai appesantire il lettore, spingendolo a proseguire la lettura per svelare il background e le sfaccettature di ciascun protagonista.

I protagonisti sono sette e sono abbastanza stereotipati in quanto presentano caratteristiche che è facile riscontrare in molti personaggi di altri young adult.
C’è la mente del gruppo, Tyler, il ragazzo d’oro, sempre impeccabile e astuto;
Auri, la ragazza catapultata in un contesto completamente nuovo, che non sa quello che fa, né ha ancora compreso il suo ruolo;
Scarlett, che usa la sua bellezza e il suo acume per manipolare gli altri;
Cat, la ragazza alternativa piena di tatuaggi, sempre pronta a partecipare alle risse;
Kal, l’alieno bello, taciturno e muscoloso, il misterioso del gruppo;
Fin, altro ragazzo alieno, sempre con la battuta pronta;
Zila, una ragazza intelligente ma incapace di integrarsi.

Molto probabilmente se avessi letto questo libro a 16 anni adesso sarei sotto un treno, avrei una folle cotta per Tyler Jones e starei sognando di solcare la galassia con la squadra 312.
Purtroppo non ho più 16 anni, e quindi oltre a vedere i lati positivi della storia, quelli che mi fanno sorridere, mi balzano agli occhi anche i difetti, e in questo caso, ne ho visti parecchi.

Tra le cose che non mi hanno convinta del tutto, il worldbuilng scontato, completamente privo di originalità, tanto che mi sembrava di vedere un film di fantascienza dei primi anni 2000, la trama davvero ovvia, che sembra riprendere film e serie tv conosciuti, scontata al punto che riuscivo ad indovinare cosa sarebbe accaduto prima ancora che si smuovessero le acque, la nemesi “finale” che sa tanto di plagiato e il fatto che quella che dovrebbe essere la protagonista principale non riesce a risaltare sugli altri personaggi, difatti non sono riuscita ad affezionarmi a lei.

Tra le cose che ho apprezzato, invece, il ritmo narrativo fluido, capace di intrattenere, il background dei personaggi e lo sviluppo dei legami che si crea, i dialoghi taglienti, irriverenti e divertenti e il finale, capace di smuovere il lettore.

Nel complesso, Aurora Rising è una lettura leggera, che sa piacevolmente intrattenere, ricca di sentimenti positivi come l’amicizia, il senso di lealtà e appartenenza, la famiglia e anche l’amore, forse qualche sentimento negativo in più avrebbe reso più realistico il tutto.
Comunque resta un libro perfetto per una divertente fuga dalla realtà senza troppe pretese.

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Recensione: Il Principe Crudele, Holly Black

Most of all, I hate you because I think of you. Often. It’s disgusting, and I can’t stop.

Jude era solo una bimba quando i suoi genitori furono brutalmente assassinati. Fu allora che sia lei che le sue sorelle vennero rapite e condotte nel profondo della foresta, nel mondo magico. Dieci anni dopo, l’orrore e i ricordi di quel giorno lontano e terribile ormai sfocati, Jude, ora diciassettenne, è stanca di essere maltrattata da tutti e soprattutto vuole sentirsi finalmente parte del luogo in cui è cresciuta, poco importa se non le scorre nemmeno una goccia di sangue magico nelle vene. Ma le creature che le stanno intorno disprezzano gli umani. E in particolare li disprezza il principe Cardan, il figlio più giovane e crudele del Sommo Re. Per ottenere un posto a corte, perciò, Jude sarà costretta a scontrarsi proprio con lui, e nel farlo, a mano a mano che si ritroverà invischiata negli intrighi e negli inganni di palazzo, scoprirà la sua propensione naturale per l’inganno e gli spargimenti di sangue. Quando però si affaccia all’orizzonte il pericolo di una guerra civile che potrebbe far sprofondare la corte in una spirale di violenza, Jude non ha esitazioni. Per salvare il mondo in cui vive è pronta a rischiare il tutto per tutto.

Il Principe Crudele è un fantasy young adult, primo libro della trilogia The Folk of the Air di Holly Black, una delle mie autrici preferite, pubblicato da Mondadori, i cui seguiti sono Il Re Malvagio e La Regina del Nulla, in uscita in Italia il 12 Gennaio 2021, e la novella, inedita in Italia, How The King of Elfhame Learned to Hate Stories.
L’ambientazione è il reame magico, per gli appassionati dei libri dell’autrice è un mondo già conosciuto nella precedente serie The Modern Faerie Tales e nel libro autoconclusivo Nel Profondo della Foresta. Nella trilogia The Folk of the Air ritroviamo infatti alcuni personaggi delle precedenti scritture dell’autrice.

Questo libro ha creato una vera e propria divisione tra i lettori, c’è chi lo ama alla follia, chi lo detesta e chi lo ha addirittura abbandonato.
Io appartengo alla categoria di quelli che se ne sono innamorati, nonostante i difetti.
Per me le note positive prevalgono di gran lunga su quelle negative, ci sono tutti gli ingredienti per una storia intrigante, abbiamo una protagonista che non agisce solo per sopravvivere, ma che desidera potere, vuole essere temuta, è ambientato in un mondo spietato, governato da creature grottesche e crudeli che disprezzano gli umani fino al punto di trarre piacere dall’umiliarli e condurli alla follia, e, soprattutto, la Black riprende in modo fedele le leggende sui Fae, sul popolo magico, sulla loro arguzia e i tratti più spregevoli.
Il worlbuilding è unico, oscuro, malato, il reame magico è un insieme di pugnalate alle spalle, creature terrificanti, rancore, bugie, tradimenti, un miasma di sentimenti negativi e crudeltà, tranelli, giochi pericolosi. Le descrizioni dell’autrice sono vivide, accurate, ipnotiche.
La Black non tratteggia sogni ma incubi su carta, anche se in alcuni tratti non si è soffermata sulle descrizioni delle creature, riportandone solo il nome e dandone per scontato la conoscenza.

Certo che vorrei essere come loro. Loro vivranno in eterno. Sono belli come spade forgiate da qualche fuoco divino. E Cardan lo è ancora di più. Lo odio più di chiunque altro. Lo odio talmente tanto che qualche volta, quando lo guardo, mi manca il respiro.”

La trama si apre con un flashback, Jude Duarte è solo una bambina quando, assieme alla gemella Taryn e alla sorella Vivienne, assiste al massacro dei genitori ad opera di Madoc, una creatura del mondo magico, nonché padre di Vivienne.
Madoc porterà la bambine con se nel reame magico, dove vivranno una vita da emarginate a causa della loro mortalità. Crescendo, Jude e Taryn, sopporteranno in silenzio i soprusi delle creature del reame fatato, le loro azioni spietate e immorali, finché un giorno Jude non troverà il coraggio di ribellarsi, anelando vendetta e bramando un proprio posto a Corte.

All’inizio ammetto di aver avuto qualche difficoltà con la narrazione in prima persona, ma procedendo con la lettura ho smesso di farci caso, il ritmo narrativo è veloce e incalzante, tanto che mi è stato impossibile alzare gli occhi dalle pagine.
Lo stile di scrittura è curato, ammaliante, scorrevole e piacevole, è una lettura che intrattiene, intriga e incuriosisce.

I personaggi della Black sono tutti perfettamente caratterizzati, meravigliosamente complessi, riconoscibili nella loro unicità. Jude è una protagonista atipica, l’antieroina per eccellenza, portatrice sana di rancore, prova invidia nei confronti delle creature magiche, è bugiarda, manipolatrice, pronta a versare sangue per raggiungere i suoi obiettivi, perfetta per il mondo spietato in cui è cresciuta.
Sicuramente controverso il rapporto con il patrigno Madoc, con cui la Black ci ha voluto omaggiare di un esempio di Sindrome di Stoccolma.
Cardan come personaggio è decisamente più stereotipato e la sua evoluzione è abbastanza intuibile.
Il rapporto tra i due è sicuramente malato, tossico, ma altrettanto giusto per il contesto in cui si trovano i protagonisti.
Cardan, come le altre creature immortali che popolano il reame, è abituato a pensare in modo egoistico, agisce per tranelli, opera crudeltà, non è umano e non prova sentimenti umani, così come Jude, che invece mira a diventare come le creature che detesta, se non più potente, per ottenere vendetta, e che non ha mai conosciuto modi di pensare umani, per tanto tra i due non potrebbe mai esserci una classica storia d’amore come la si intende normalmente.

In conclusione adoro i mondi creati dalla Black e anche in questo caso mi sono innamorata della sua penna, delle leggende e del mondo fatato, che fatato non è, che ha creato. Adoro il fatto che la divisione tra bene e male non sia netta, ma che l’autrice riconosca la dualità e la coesistenza di questi elementi nei suoi personaggi, le sue descrizioni crude e oscure e la complessità nascosta dietro una narrazione apparentemente semplicistica.
Il Principe Crudele è una lettura piacevole, intrigante che non vi permetterà di abbandonarla, portandovi ad odiarla o ad amarla.

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Recensione: Il Nome del Vento, Patrick Rothfuss

“Il mio nome è Kvothe. Ho sottratto principesse a re dormienti nei tumuli. Ho ridotto in cenere la città di Trebon. Sono stato espulso dall’Accademia a un’età inferiore a quella in cui la maggior parte della gente viene ammessa. Ho percorso alla luce della luna sentieri di cui altri temono di parlare durante il giorno. Ho parlato a Dei, amato donne e scritto canzoni che fanno piangere i menestrelli. Potresti aver sentito parlare di me.”

“Ero distante solo due dozzine di piedi, lo vedevo perfettamente nella luce del tramonto. La sua spada era pallida ed elegante, tagliava l’aria con un suono freddo. La sua bellezza quella perfetta della porcellana. Era un Chandrian, un distruttore, e aveva appena massacrato la mia famiglia.” Per ritrovare quella mostruosa creatura e vendicare la sua famiglia, Kvothe è pronto a tutto. Costretto ad affrontare la fame e qualsiasi tipo di pericolo, il ragazzo sente crescere dentro di sé un potere magico che lo porterà all’Accademia, una spietata scuola di magia in cui nessun errore è permesso. Ma chi resiste ai duri anni dell’apprendistato poi sarà in grado, forse, di affrontare i propri spietati nemici e gli incubi peggiori. E Kvothe ora è pronto a vendicare il popolo nomade di attori con cui è cresciuto, massacrati insieme ai genitori dai demoni Chandrian, è pronto a diventare quello che sarà: potente mago, abile ladro, maestro di musica e spietato assassino, l’eroe che ha ispirato migliaia di leggende.
Patrick Rothfuss ha scritto una saga completamente differente dalle altre – ha detto Orson Scott Card: “Un Harry Potter senza concessioni agli aspetti infantili, più cupo, un romanzo complesso ma con uno strano tocco di dolcezza e una leggerezza segreta che creano un mondo epico mai visto”. Il Nome del Vento, il primo volume della trilogia “Le Cronache dell’Assassino del Re”, è stato pubblicato nel 2007 negli Stati Uniti e, nello stesso anno, ha vinto il Quill Award per il miglior libro fantasy, consacrando Rothfuss tra i maestri contemporanei del genere.

Il Nome del Vento è il primo libro della trilogia fantasy Le Cronache dell’Assassino del Re, scritta da Patrick Rothfuss, l’edizione in questione è l’edizione speciale del decennale, edita Oscar Mondadori, arricchita da spettacolari illustrazioni e da una nota speciale dell’autore.

Mi ero ripromessa spesso di intraprendere questa lettura, in attesa da mesi nella mia libreria, guardavo questo libro imponente e sentivo che non mi avrebbe delusa, avevo una strana sensazione a pelle che mi diceva che mi avrebbe dato più di quanto mi aspettassi. Così ho deciso di riporlo, in attesa, proprio per l’ultimo mese dell’anno, quando si tirano le somme e si cerca di far quadrare la nostra vita, in attesa di cominciare un nuovo capitolo.

Questo romanzo è qualcosa di unico, qualcosa di cui abbiamo un disperato bisogno senza saperlo. È un romanzo che va letto con calma, va assaporato, assimilato, necessita dei suoi tempi per entrarvi nel cuore. Lo stile di scrittura di Patrick Rothfuss è uno stile ipnotico, musicale, capace di ammaliare e rendere interessanti anche i gesti più comuni, come il semplice poggiare un boccale su un bancone di legno.
Questa storia è un intreccio di chiaroscuri, delicata ma impegnativa e potente al tempo stesso, ricca di tormento ma anche di dolcezza, un mosaico di luce e tenebre e musica, c’è musica dappertutto, tra le parole, nei gesti e perfino dove meno ci si aspetta di trovarla, nei silenzi più profondi.

Il worldbuilding dietro a tutto questo è qualcosa di pazzesco, meraviglioso, folle, l’autore ha pensato proprio a tutto, alle diverse valute monetarie, ai dialetti, a un calendario apposito, tutto addentrato in una perfetta ambientazione medievale che, nonostante non sia tracciata nel dettaglio, risulta perfettamente chiara nella mente del lettore. La narrazione è spesso arricchita da canzoni, poesie, filastrocche e miti capaci di sorreggere e aiutare lo sviluppo della trama, e che spesso raccontano più di non quanto faccia il protagonista.

I personaggi sono tutti perfettamente caratterizzati, mentre l’elemento fantastico è ancora nebuloso, a tratti celato e confuso. Ci viene mostrato come un elemento elitario a cui solo pochi eletti possono accedere, è costituito dalla “Simpatia”, una magia legata indissolubilmente alla scienza, e al potere che ha la conoscenza dei Nomi sulla materia.

Lascia che dica una cosa prima di cominciare. Ho narrato storie in passato, dipinto immagini con le parole, raccontato menzogne dure e verità ancora più dure. Una volta, ho cantato i colori a un cieco. Ho suonato per sette ore, ma alla fine disse che li vedeva, verde e rosso e oro. Quello, penso, fu un compito più facile. Cercare di farvela comprendere con nient’altro che le parole. Non l’avete mai vista, non avete mai sentito la sua voce, non potete sapere.

Questo libro è la storia di Kvothe raccontata dalle sue stesse labbra, la storia della sua vita, attorno al quale sono state tessute leggende positive e meno, Kvothe sceglie di fare chiarezza proprio per eliminare le menzogne.
In un piccolo villaggio, in una locanda chiamata La Pietra Miliare, Kvothe si nasconde dietro una falsa identità, dietro ad un bancone pulito, insieme al suo apprendista, Bast. È chiaro sin dal principio che più di qualcosa è andato storto nella sua vita, e che, al tempo stesso, Kote non è come si mostra ai pochi e soliti avventori della sua locanda. C’è un’aura di mistero attorno a lui, è più astuto di quel che sembra e più pericoloso di quanto vorrebbe apparire. È Cronista, altro protagonista, a raggiungerlo e chiedergli di raccontargli la sua storia, proprio per fare chiarezza sul mito costruito attorno al suo nome. Allora Kvothe inizierà il suo racconto, proprio dalla sua giovinezza, trascorsa a girare il mondo assieme ai genitori.
La narrazione procede su due piani, abbiamo il presente, scritto in terza persona, e il passato, in cui a parlare è proprio Kvothe. Insieme a lui riviviamo la sua giovinezza, le mille difficoltà che ha dovuto superare, la sua vita da girovago trascorsa assieme alla famiglia e alla carovana di artisti con cui ha girato il mondo, lo spiacevole incontro con le creature che diventeranno i suoi nemici, il periodo in cui inevitabilmente diventa mendicante, costretto alla miseria e alla fame e, da ultimo, il tortuoso periodo di studi all’Accademia.

Kvothe è un personaggio estremamente complesso, di cui mi sono lentamente innamorata proprio per questa costante contrapposizione tra l’uomo astuto, chiuso in se stesso, pericoloso ma rassegnato, che se ne sta dietro al bancone della sua locanda, e il ragazzo che invece era, quello con l’anima da girovago e il cuore devoto alla musica, coraggioso, fragile e determinato, pronto a tutto pur di sopravvivere e raggiungere i propri obiettivi.

I miei genitori danzarono assieme, la testa di lei sul petto di lui. Tenevano entrambi gli occhi chiusi. Sembravano così perfettamente contenti. Se riuscite a trovare qualcuno così, qualcuno da stringere e con cui chiudere gli occhi di fronte al mondo, allora siete fortunati. Anche se dura solo un minuto o un giorno. L’immagine di loro due che ondeggiano dolcemente al suono della musica è nella mia mente la raffiguranorazione dell’amore, anche dopo tutti questi anni.”

È davvero difficile parlare di questa storia, è un libro che va letto per essere scoperto e compreso, ti lascia un qualcosa dentro ma non la capacità di esprimerlo a parole. Personalmente questo libro mi ha lasciato musica, emozioni, ho sofferto con Kvothe per i torti che ha subito e gioito assieme a lui quando le cose andavano finalmente per il verso giusto.

Molti sostengono che il ritmo della narrazione sia lento, difficoltoso, ma io non l’ho trovato affatto così, ho amato questo libro dall’inizio alla fine, nonostante la maggioranza di personaggi maschili delle volte si facesse sentire.

Lo stile dell’autore è incredibile e riconoscibile, impossibile non venirne catturati dalle prima righe, perciò per chi ancora non l’avesse fatto leggete questa meraviglia e abbandonatevi completamente alle sapienti mani di Rothfuss.

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Recensione: Il Priorato dell’Albero delle Arance, Samantha Shannon

“We may be small, and we may be young, but we will shake the world for our beliefs.”

La casa di Berethnet ha regnato su Inys per mille anni ma ora sembra destinata a estinguersi se la regina Sabran IX non si sposerà e darà alla luce una figlia. I tempi sono difficili, gli assassini si nascondono nell’ombra della corte. A vegliare segretamente su Sabran c’è Ead Duryan, adepta di una società segreta che, grazie ai suoi incantesimi, protegge la sovrana. Ma la magia è ufficialmente proibita a Inys. Al di là dell’Abisso, in Oriente, Tané studia per diventare cavaliere di draghi sin da quando era bambina. Ma ora si trova a dover compiere una scelta che potrebbe cambiare per sempre la sua vita.
In tutto ciò, mentre Oriente e Occidente, da tempo divisi, si ostinano a rifiutare un negoziato, le forze del caos si risvegliano dal loro lungo sonno. Tra draghi, lotte per il potere e indimenticabili eroine, l’epico fantasy al femminile per il nuovo millennio.

Il Priorato dell’Albero delle Arance è un epic fantasy della scrittrice inglese Samantha Shannon, giovanissima promessa della letteratura, pubblicato dalla Oscar Mondadori nel 2019. Il Priorato è sicuramente uno dei libri che più ho amato tra le letture di quest’anno, nonostante non presenti elementi particolarmente innovativi rispetto ai canoni del fantasy tradizionale, si tratta di una lettura intrigante e coinvolgente, estremamente appassionante.

Una volta entrati nel mondo creato dalla Shannon non c’è via di fuga, dopo qualche capitolo di assestamento per far ambientare il lettore la storia prende il via, rendendo impossibile abbandonare la lettura.
Il libro è ricco di colpi di scena e avventure, ci sono battaglie, segreti, intrighi politici, miti e magia, draghi, personaggi perfettamente caratterizzati, storie d’amore e di sacrificio, la minaccia di un antico male e un world building pazzesco.

La narrazione e di conseguenza i capitoli, sono divisi tra Occidente e Oriente, l’autrice riprende, rispettivamente, un’ambientazione tipica dell’Europa del Medioevo con tutti i suoi difetti, compreso quello di una religiosità totalizzante e bigotta, e un’altra Asiatica, più legata alle leggende e al misticismo che alla storia vera e propria, come si può evincere ad esempio dalla presenza dei Draghi, che vengono venerati alla stregua di Dei dalla popolazione.

I punti di vista sono molteplici, i personaggi sono per la maggior parte al femminile, e sono destinati a intrecciarsi nel finale, come ci si potrebbe aspettare.

I protagonisti sono sviluppati alla perfezione, tra i miei preferiti sicuramente la Regina Sabran per il suo folle coraggio, Ead Duryan, perché essendo il personaggio a cui è riservato più spazio è impossibile non affezionarsi a lei, e in ultimo l’alchimista Niclays Roos, uno dei più complessi, proprio perché presenta più sfumature di personalità rispetto agli altri che sembrano un po’ piatti.

Anche le nemesi sono molteplici, anche se la minaccia più grande resta quella del Senza Nome, un mastodontico drago imprigionato da mille anni, che sta per risorgere, che poteva essere definito meglio, soprattutto riguardo alla sue intenzioni e motivazioni.

Lo stile di scrittura è uno stile ricco, descrittivo e fluido, impossibile non apprezzarlo, anche se delle volte si fa sentire troppo, come nelle descrizioni infinite sul cibo, che potevano essere evitate. Di contro le descrizioni dei draghi contenute in questo romanzo sono qualcosa di veramente spettacolare, perfette e evocative, magistrali.

La cosa che probabilmente mi ha delusa di più, in tanta bellezza, è stato proprio il finale, un finale troppo sbrigativo e scontato. Tantissimi capitoli per arrivare a una conclusione buonista di poche pagine, che non soddisfa il lettore, che si ritrova a chiedersi perché la trama non sia stata sviluppata su più libri per una degna conclusione.

Il Priorato dell’Albero delle Arance resta comunque un fantasy ben fatto che vale la pena leggere nonostante la considerevole mole di pagine, una lettura coinvolgente, emozionante e indimenticabile.
Non sono entrata nel dettaglio proprio per evitare spoiler, penso che il bello di questo libro sta proprio nelle storie personali dei personaggi che meritano di essere scoperte poco per volta, man mano che si prosegue nella lettura.

In conclusione, è stata una delle letture che più ho amato quest’anno, mi è piaciuta molto nonostante mi aspettassi qualcosa di diverso, anche per le importanti tematiche trattate, come le relazioni LGBT, per lo stile di scrittura coinvolgente e il world building interessante, e ovviamente per i draghi di diverse specie che l’autrice ha inserito nella narrazione.

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Recensione: Wintersong, S. Jae-Jones

“I am,” he whispers, “the monster I warned you against.”
“You are,” I say hoarsely, “the monster I claim.”

L’inverno si avvicina, e il Re dei Goblin sta per partire alla ricerca della sua sposa… Sin da quando era una bambina, Liesl ha sentito infiniti racconti sui Goblin. Quelle leggende hanno popolato la sua immaginazione e ispirato le sue composizioni musicali. Adesso ha diciotto anni, lavora nella locanda di famiglia e sente che tutti i sogni e le fantasticherie le stanno scivolando via dalle mani, come minuscoli granelli di sabbia. Ma quando sua sorella viene rapita dal Re dei Goblin, Liesl non ha altra scelta che mettersi in viaggio per tentare di salvarla. E così si ritrova catapultata in un mondo sconosciuto, strano e affascinante, costretta ad affrontare una decisione fatale.

Wintersong è un fantasy young adult della scrittrice S. Jae-Jones, edito dalla Newton Compton, pubblicato in Italia nel 2017. Più in particolare si tratta di un retelling del film Labyrinth, che ammetto di non conoscere, che riprende il mito di Ade e Persefone e la storia classica della Bella e la Bestia.
Wintersong è la perfetta fiaba oscura da leggere in inverno, con atmosfere macabre e selvagge, perfetta per chi ha amato libri come Cuore Oscuro, di Naomi Novik, o L’Orso e L’Usignolo di Katherine Arden.

C’era una volta una bambina che suonava la sua musica per un bambino nella foresta.
Lei era piccola e aveva i capelli scuri, lui era alto e aveva i capelli biondi, ed erano una bellissima coppia mentre ballavano insieme, sì ballavano al suono della musica che la bambina sentiva nella sua testa. Sua nonna le aveva detto di stare attenta ai lupi che si aggiravano nella foresta, ma la bambina sapeva che il bambino non era pericoloso, anche se era il Re dei Goblin.

Liesl, Elizabeth, è una ragazza della Baviera, figlia di locandieri, che passa il suo tempo ad occuparsi della famiglia e a fantasticare sulle storie dei Goblin e del loro Re, che la nonna le raccontava da bambina. Con il passare del tempo la fantasia comincia a sbiadire, compreso il folle patto stretto in giovane età con il Re dei Goblin, compagno di giochi, che le chiese di diventare sua sposa. La ragazza continua ad avere ambigue visioni spettrali che sembrano contraddirla. Nella vita di tutti i giorni Liesl viene costantemente eclissata dalla bellezza della sorella, Kate, e dal talento musicale del fratello, Josep.
Elizabeth non è la tipica eroina, prova invidia nei confronti dei fratelli, rancore e gelosia, il suo unico rifugio è la musica, altra protagonista indiscussa del libro, difatti la ragazza segretamente compone, aiutando anche il fratello, imprimendo la sua anima negli spartiti.

«Volevi diventare una famosa compositrice. Volevi che la tua musica fosse suonata nelle grandi sale da concerto di tutto il mondo.» Sentì il cuore esplodermi nel petto, una fiammata repentina, ma il bruciore indugiò dentro di me anche dopo. Era vero che una volta avevo sognato quelle cose. Prima che il talento di Josef rubasse l’attenzione di nostro padre. Prima che papà mi spiegasse a chiare lettere che il mondo non era interessato ad ascoltare la mia musica. Perché era una cosa strana. Inusuale. Perché io ero una donna.

In una visita al mercato cittadino, la sorella minore Kate, che Liesl definisce superficiale, ruba da una bancarella un frutto magico e, allora, il re dei Goblin, l’Erlkoenig, la rivendica e la rapisce, portandola nel Sottosuolo, luogo oscuro e selvaggio, brulicante di creature crudeli che si divertono con inganni e tranelli spietati. Liesl intraprende un viaggio per salvarla, e lì, in quel Labirinto, le verrà offerta una scelta che cambierà la sua vita.

I personaggi di questa storia sono tutti caratterizzati alla perfezione, è facile affezionarsi a questa antieroina che sgomita in silenzio per cercare di trovare il suo posto nel mondo, così come al tormentato e misterioso Erlkoening, l’autrice riesce a far magistralmente trapelare dalle pagine il peso che comporta la maledizione che lo affligge .
È evidente la crescita che l’autrice riesce a conferire ai personaggi, Elizabeth diventa una donna consapevole, coraggiosa, matura, forte, totalmente in contrapposizione con la ragazza descritta all’inizio del romanzo.
Le ambientazioni, specie quella del Sottosuolo, sono tenebrose, ipnotiche, perfette per chi ama le tinte dark, il mistero e la magia.
Elemento centrale della storia è la passione per la musica, spesso descritta fino all’estremo, anche troppo per chi non la conosce tanto bene.
Un difetto del libro per me, è proprio in queste descrizioni infinite, che rallentano il ritmo narrativo e che delle volte sfociano nel noioso.
Un altro elemento importante è il romance, in Wintersong l’amore è protagonista, un amore che consuma, travolge e che, oltre a divorare l’anima, annienta anche il corpo.
Il finale è un sicuramente una chiusura sofferta per i lettori, ribadisce l’importanza fondamentale del libero arbitrio e si consacra nel coraggio della protagonista.

In conclusione WIntersong è una lettura densa di emozioni, passioni, musica.
Una lettura piacevole, perfetta per l’inverno, per chi ama le atmosfere dark, i regni sovrannaturali, gli inganni, la magia e le creature subdole, per chi è appassionato di antieroi e cerca un romanzo ricco di crescita personale, romantico ma non stucchevole.

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Recensione: La Guerra dei Papaveri, R. F. Kuang

“War doesn’t determine who’s right. War determines who remains.”

Rin ha passato a pieni voti il kējǔ, il difficile esame con cui in tutto l’Impero vengono selezionati i giovani più talentuosi che andranno a studiare all’Accademia. Ed è stata una sorpresa per tutti: per i censori, increduli che un’orfana di guerra della provincia di Jī potesse superarlo senza imbrogliare; per i genitori affidatari di Rin, che pensavano di poterla finalmente dare in sposa e finanziare così la loro impresa criminale; e per la stessa Rin, finalmente libera da una vita di schiavitù e disperazione. Il fatto che sia entrata alla Sinegard – la scuola militare più esclusiva del Nikan – è stato ancora più sorprendente. Ma le sorprese non sono sempre buone. Perché essere una contadina del Sud dalla pelle scura non è una cosa facile alla Sinegard. Presa subito di mira dai compagni, tutti provenienti dalle famiglie più in vista del Paese, Rin scopre di avere un dono letale: l’antica e semileggendaria arte sciamanica. Man mano che indaga le proprie facoltà, grazie a un insegnante apparentemente folle e all’uso dei papaveri da oppio, Rin si rende conto che le divinità credute defunte da tempo sono invece più vive che mai, e che imparare a dominare il suo potere può significare molto più che non sopravvivere a scuola: è forse l’unico modo per salvare la sua gente, minacciata dalla Federazione di Mugen, che la sta spingendo verso il baratro di una Terza guerra dei papaveri. Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere davvero troppo alto.

La Guerra dei Papaveri è un libro Military Fantasy della giovanissima e geniale autrice R. F. Kuang. Il debutto in Italia è dovuto alla Oscar Mondadori, che pubblicherà anche i successivi capitoli della trilogia.
L’ambientazione del libro si rifà alla cultura nipponica, più precisamente l’autrice ha scelto di ispirarsi alla seconda guerra sino-giapponese e alla dinastia imperiale Song.

La Guerra dei Papaveri è un libro imperdibile, brutale, intenso, emozionante e doloroso.
Chi deciderà di avventurarsi in questo viaggio indimenticabile affronterà la crudezza sanguinaria della guerra, la travolgente smania causata dalla dipendenza e il terribile rifiuto derivante dalla discriminazione. Assaggerà il morso acerbo della disperazione, motore di azioni deprecabili, nonché unico mezzo per migliorare un destino altrimenti infausto.
Questa è una storia di coraggio, di ribellione, di determinazione e sacrificio con protagonisti umani, fragili e complessi, e di magia, sciamanesimo, grazie al quale le divinità si intromettono nelle vicende dei mortali, portando avanti una battaglia più antica del tempo stesso.
Se il messaggio non fosse già abbastanza chiaro, per chi non l’avesse ancora fatto, leggete la Guerra dei Papaveri!

Questo libro merita un sacco, sicuramente non è un’opera per deboli di stomaco, come molti blogger prima di me hanno giustamente segnalato.
L’inserimento di scene cruente nella narrazione è tuttavia necessario per comprendere a fondo la brutalità della guerra, un monito implicito e giusto che l’autrice ha saputo saggiamente dosare.

La storia si potrebbe dividere in tre fasi.
Nella prima troviamo la protagonista, Runin, decisa a migliorare il proprio destino e ad allontanarsi dalla famiglia affidataria che vorrebbe utilizzarla per i propri scopi, si ritrova a preparare il kējǔ, un difficile esame che mira a selezionare i migliori giovani del paese in vista dello smistamento nelle Accademie. Già dall’inizio possiamo apprezzare la determinazione e la forza di volontà della protagonista, pronta a tutto pur di riuscire nei suoi intenti, nonché lo stile accattivante dell’autrice, capace di catturare già dalla prima pagina.
Nella seconda, Rin comincia l’addestramento alla Sinegard, Accademia Militare in grado di garantire ai migliori studenti un futuro prestigioso tra i ranghi dell’esercito. Qui avranno inizio le prime difficoltà della nostra protagonista, Rin verrà discriminata per il colore della pelle e a causa della sua ignoranza rispetto ai giovani rampolli che, al contrario di lei, sono stati addestrati dall’infanzia.
Nella terza e ultima parte la storia entra nel vivo, la Guerra raggiunge Sinegard e anche i più giovani sono costretti ad imbracciare le armi per difendere il Paese.

“I bambini cessavano di essere bambini quando mettevi una spada nelle loro mani. Quando gli insegnavi a combattere in guerra, li armavi e li mettevi in prima linea, non erano più bambini. Erano soldati.”

Lo stile della Kuang è estremamente evocativo, fluido e scorrevole.
Una piccola pecca per chi è fissato con i dettagli come me, sono stati i tempi di narrazione molto rapidi. Interi anni vengono semplificati in poche pagine, un po’ come se le prime due parti fossero riassunti di un libro a se.
Tuttavia non mi sento di condannare completamente questa scelta, probabilmente un romanzo completamente incentrato sull’Accademia sarebbe potuto risultato noioso rispetto all’opera complessiva.
Tutti i personaggi sono perfettamente caratterizzati, anche se all’inizio ho avuto qualche difficoltà a ricordare tutti i nomi, e ho amato la protagonista proprio per il suo non essere la tipica eroina, per le sue debolezze e la sua forza interiore.

La Guerra dei Papaveri è un libro che tratta tematiche forti, estremamente interessante e meritevole, un libro che va letto proprio per la sua capacità di offrirci importanti spunti riflessivi. Un libro che ti sconvolge e che ti obbliga a fermarti e pensare.

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Recensione: La vita invisibile di Addie LaRue, V. E. Schwab

“The old gods may be great, but they are neither kind nor merciful. They are fickle, unsteady as moonlight on water, or shadows in a storm. If you insist on calling them, take heed: be careful what you ask for, be willing to pay the price. And no matter how desperate or dire, never pray to the gods that answer after dark.” – Estelle Magritte

“Non pregare mai gli dèi che sono in ascolto dopo il tramonto.”.
E se potessi vivere per sempre, ma della tua vita non rimanesse traccia perché nessuna delle persone che incontri può ricordarsi di te? Nel 1714, Adeline LaRue incontra uno sconosciuto e commette un terribile errore: sceglie l’immortalità senza rendersi conto che si sta condannando alla solitudine eterna. Tre secoli di storia, di storie, di amore, di arte, di guerra, di dolore, della solennità dei grandi momenti e della magia di quelli piccoli. Tre secoli per scegliere, anno dopo anno, di tenersi stretta la propria anima. Fino a quando, in una piccola libreria, Addie trova qualcuno che ricorda il suo nome. Nella tradizione di “Vita dopo vita” e “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo”, “La vita invisibile di Addie LaRue” si candida a divenire una pietra miliare nel genere del “romanzo faustiano”.

Domani, 24 Novembre, arriva nelle librerie italiane uno dei libri più attesi del momento: La vita invisibile di Addie LaRue, di V. E. Schwab.
Il mio rapporto con quest’autrice è da sempre tormentato, passo da stadi in cui il suo stile ricco, musicale e intenso mi stanca, ad altri in cui sviluppo una vera e propria dipendenza, tanto che potrei continuare a leggere le sue parole per ore senza averne mai abbastanza.
L’idea, il progetto, che sta dietro a queste pagine mi ha conquistata prima ancora di riuscire ad approfondire la trama e conoscerne lo sviluppo, e come sempre ringrazio il reclutamento recensori della Oscar Mondadori per averci dato la possibilità di leggerlo in anteprima.

La vita invisibile di Addie LaRue è un concentrato di emozioni e spunti riflessivi.
Le pagine sono dense di quel sentimento di mélancolie che rispecchia l’origine francese della protagonista, c’è un’intensità intrinseca nascosta dietro ad ogni parola.
Ogni passaggio, ogni singola introspezione è capace di scavare a fondo fino ad creare un gorgo di emozioni che ti sollecita l’anima e ti spinge a porti profondi interrogativi sul senso della vita.
Un romanzo faustiano che richiama il decadentismo, una celebrazione dell’arte in ogni sua forma, della forza della vita e della resilienza, una trama che si sviluppa su più piani temporali e una protagonista coraggiosa e indimenticabile.
Le atmosfere riecheggiano lo stile di film intramontabili, come Midnight in Paris, Parnassus, Adaline l’eterna giovinezza.

La storia si apre nel 18° secolo. Adeline, Addie, è una giovane ragazza di un paesino della campagna francese che vive con i genitori e si domanda cosa ci sia al di là della fine della strada. Adeline, a differenza delle sue coetanee, non vuole restare intrappolata nei paradigmi imposti dalla società, non vuole sposarsi e restare bloccata a Villon senza mai scoprire cosa il mondo potrebbe offrirle.
Perciò, quando viene obbligata a sposare un vedovo del suo villaggio comincerà a pregare dei nuovi e antichi alla disperata ricerca di una scappatoia.
Ignorando gli avvertimenti dell’anziana Estele, si ritroverà a pregare dopo il tramonto e allora, finalmente, riceverà risposta. L’oscurità giungerà da lei sotto le sembianze di un suo ideale romantico e le offrirà la possibilità di vivere per sempre al prezzo della sua anima.
Adeline stringe un incosciente patto con l’oscuro, ma il prezza da pagare sarà il più alto. Nessuno si ricorderà mai di lei, una porta chiusa, una testa che si volta e Adeline verrà cancellata, non le sarà permesso lasciare alcuna traccia nel mondo e nemmeno pronunciare a voce alta il suo nome o la maledizione che l’affligge.
Cancellata per sempre per tutti, tranne che per l’oscuro, Luc, l’unica costante che non potrà mai abbandonarla o dimenticarla, con cui ingaggerà uno spietato scontro di volontà, finché un giorno, trecento anni dopo, entrerà in una libreria e un ragazzo, Henry, non pronuncerà le fatidiche parole: “Io mi ricordo.”

La narrazione procede su diversi piani temporali, il passato e il presente, o più precisamente New York nel 2014.
Tra i due, ho preferito sicuramente i capitoli dedicati al passato, ai ricordi di Addie, trovando le vicende a New York più banali, eccentricamente concentrate su innumerevoli feste e attività che poco si adeguano ai sentimenti interiori dei protagonisti.
Lo stile della Schwab è ipnotico come mai prima, le descrizioni sono accurate ma non eccesive. Il ritmo è incalzante grazie ai periodi brevi che danno la sensazione che la storia ben si presti ad essere anche ascoltata, oltre che letta.
I personaggi sono tutti perfettamente caratterizzati, anche se ho trovato Adeline e Luc più completi e interessanti rispetto al personaggio di Henry.
Leggere questo libro è stato qualcosa di intenso, coinvolgente, continuavo a pensarci anche quando non lo avevo tra le mani, curiosa di sapere come sarebbe proseguito.
Il finale mi ha lasciato un senso di insoddisfazione, evito spoiler per chi non l’avesse letto, complice il fatto che dalla trama era abbastanza facile evincere come si sarebbe concluso, anche a causa del narratore onnisciente.

In conclusione, vi consiglio di leggere La vita invisibile di Addie LaRue, è sicuramente un libro indimenticabile, che tratta tematiche forti e importanti, è una lettura impegnativa, non perché lo stile sia particolarmente difficile, ma perché offre profondi spunti riflessivi e necessita di tempo per essere assimilato al meglio.

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Recensione: In Fuga da Houdini, Kerri Maniscalco

“The promise of death was as alluring, if not more so, than the prospect of falling in love. What morbid creatures we were, craving danger and mystery in place of happily-ever-afters.”

Audrey Rose Wadsworth e il suo assillante compagno, Thomas Cresswell, si imbarcano sulla lussuosa RMS Etruria, diretti alla loro prossima meta, l’America. La settimana di spettacoli circensi che allieterà la traversata – compresa l’esibizione di un giovane e promettente artista della fuga – sembra la distrazione ideale prima del tetro incarico che li attende oltreoceano. Ma presto il viaggio si trasforma in un festival degli orrori quando, una dopo l’altra, giovani donne vengono trovate morte. Per Audrey Rose, il Circo al chiaro di luna – con i suoi numeri inquietanti e i personaggi grotteschi – si trasforma in un incubo e la fa tornare alla sua ossessiva ricerca di risposte. Gli indizi sull’identità di una delle vittime sembrano condurre a qualcuno a cui Audrey Rose vuole molto bene: riuscirà la ragazza a fermare il misterioso assassino prima del suo terrificante gran finale?

In Fuga da Houdini è il terzo capitolo della tetralogia con protagonista Audrey Rose Wadsworth, dell’autrice Kerri Maniscalco. La narrazione segue le vicende successive al secondo capitolo della saga, Alla Ricerca del Principe Dracula.
Dopo aver svelato il mistero attorno all’erede del Principe Dracula, Audrey Rose e Thomas Cresswell si imbarcano sulla RMS Etruria, diretti in America, insieme allo zio Jonathan e all’immancabile chaperon Mrs. Harvey. La traversata dell’Atlantico verrà allietata ogni notte da uno spettacolo del Circo al Chiaro di Luna, un circo itinerante con un misterioso e affascinante direttore, che tra le sue file presenta un noto artista della fuga nonché la cugina della nostra protagonista, Liza, che era scomparsa da qualche tempo da casa.
Non appena le luci si abbassano per preannunciare l’inizio del primo spettacolo, una donna viene brutalmente uccisa e il terrore e il sospetto dilagano tra i passeggeri della nave.
La morte sembra seguire costantemente la nostra protagonista, che si troverà costretta a stringere un accordo segreto per riuscire a svelare anche questo macabro mistero.
Seguendo la scia dei particolari omicidi che sembrano legati ai tarocchi, Audrey Rose compirà scelte discutibili, che finiranno per mettere a rischio la relazione con Thomas, e arriverà a mettere in discussione se stessa e le sue scelta di vita.

In Fuga da Houdini (o come mi piace chiamarlo: Che combini Audrey Rose?) è un romanzo che riconferma la crescita dello stile dell’autrice.
L’ambientazione, sontuosa e differente rispetto ai primi due capitoli della saga, ci mostra un mondo dorato che viene stravolto da brutali assassinii.
Questo worldbuilding non mi ha entusiasmata parecchio, ho preferito di gran lunga le atmosfere gotiche e tenebrose dei primi libri, complice il fatto che le descrizioni, comprese quelle riguardanti il circo al chiaro di luna, mi sono apparse fin troppo simili a quelle della trilogia di Caraval di Stephanie Garber.
In questo terzo romanzo abbiamo una notevole aggiunta di nuovi personaggi, tra tutti il direttore del circo, Mefistofele, che porterà scompiglio nella coppia dei protagonisti.
Mefistofele ci viene tratteggiato come un personaggio misterioso, con una morale discutibile e, grazie a lui, farà la sua comparsa lo stereotipo young adult del triangolo amoroso anche in questa saga. Riprendendo il discorso precedente, questo personaggio mi ha ricordato molto la brutta copia di Legend, sempre della Garber.
Sentivamo la mancanza di un terzo incomodo? Sicuramente no, sicuramente no se scopiazzato, sicuramente no se serviva solo per allungare il brodo.
Ho trovato molto interessante, invece, il modus operandi del serial killer, il fatto che gli omicidi fossero legati a qualcosa di arcano come i tarocchi, anche se a questo dettaglio, che è il fulcro dell’indagine, è stato dedicato troppo poco spazio.
Come sempre l’elemento romance è centrale nei libri della Maniscalco, assieme all’introspezione della protagonista e all’interessante tematica della medicina legale.
In conclusione del libro troviamo il punto di vista di Thomas in una novella extra, La nascita del Principe Oscuro.
Nel finale ho avvertito fortemente la mancanza del conclusivo tocco dark, tipico della saga.

In conclusione, In Fuga da Houdini, nonostante presenti uno stile magistrale, mi ha un po’ delusa rispetto agli altri tre libri. Lo considero “il libro di passaggio” necessario per concludere la saga, nonostante l’interessante costruzione degli omicidi.

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Recensione: Ragazzi della Tempesta, Elle Cosimano

It takes more courage to love than to fight.

Scelta numero uno: vivere o morire. In una gelida notte d’inverno, Jack Sommers è chiamato a scegliere tra vivere per sempre, secondo le antiche leggi magiche di Gaia, o morire. Jack sceglie di vivere e in cambio da quel momento in poi sarà un Inverno. Come le altre Stagioni, ogni anno Jack deve dare la caccia e uccidere chi viene prima di lui. Le leggi di Gaia sono chiare: l’Inverno uccide l’Autunno, l’Autunno uccide l’Estate, l’Estate uccide la Primavera, la Primavera uccide l’Inverno. Questo significa che Jack uccide Amber. Amber uccide Julio. Julio uccide Fleur. E Fleur uccide Jack. Sono tutti addestrati a cacciare e uccidere, e tutti a turno muoiono. Ma quando Jack e Fleur – Inverno e Primavera – sono attratti l’uno dall’altra contro ogni buon senso e regola della natura, la legge spietata che governa le loro vite eterne a un tratto diventa qualcosa di personale e di doloroso. Fleur verrà bandita per sempre, se insieme non troveranno il modo per fermare il ciclo naturale delle cose. Quando le quattro Stagioni si coalizzano, mettendo a rischio la loro immortalità in cambio di amore e libero arbitrio, la loro fuga attraverso il Paese li condurrà in un luogo in cui saranno costretti a difendersi contro un creatore che vuole annientarli.

«Ti offro una scelta, Jacob Matthew Sullivan» dice lei. «Vieni a casa con me e vivi per sempre, seguendo le mie regole. Oppure muori questa notte.» Casa. Un’ondata di dolore s’innalza dentro di me. Le afferro il polso mentre il peso schiacciante del mio ultimo respiro mi fa sprofondare. Ti prego, la imploro. Ti prego, non lasciarmi morire.”

Ragazzi della tempesta è un urban fantasy young adult della scrittrice Elle Cosimano, edito Rizzoli, che presenta elementi mitologici e che si avvicina al genere distopico fantascientifico.
La storia si apre con un flashback, ovvero con la morte del protagonista, Jack, a causa di un incidente su una pista innevata. Gaia si presenta a lui per offrirgli una scelta, morire o vivere per sempre seguendo le sue regole.
Jack accetta e diventa un’Inverno, viene quindi inserito nel sistema ciclico delle stagioni coordinato da Gaia e supervisionato da Cronos e dalla sua guardia.
Le personificazioni delle stagioni vengono assegnate a un specifico settore territoriale, ognuna di esse possiede poteri magici legati agli elementi, vengono affiancate da un supervisore che vigila su di loro e ha il compito di riportarli all’Osservatorio, attraverso ingegnose ley line, una volta che la loro stagione è giunta al termine e quella successiva si è presentata per ucciderli.
Al termine di ogni Inverno, Jack viene cacciato da Fleur, la Primavera del suo settore, che ha il compito di ucciderlo. Gli inverni, però, durano sempre più a lungo perché tra i due è nato un amore impossibile che viola tutte le rigide regole imposte all’Osservatorio.
Le stagioni, difatti, non possono avere contatti con stagioni differenti, vivono separate, esclusivamente con i propri simili. Jack allora cercherà disperatamente il modo per poter stare con Fleur, stravolgendo tutti i dogmi imposti da Gaia e organizzando una fuga che coinvolgerà anche Amber e Julio, l’Autunno e l’Estate del loro settore, oltre ai loro supervisori.

“Forse Jack ha ragione e non è vero che dobbiamo darci la caccia a vicenda. Forse quello che dobbiamo fare è trovarci a vicenda. Creare uno spazio gli uni per gli altri e darci a vicenda lo spazio per essere forti. Sostenerci a vicenda quando forti non siamo, e affrontare l’occasionale tempesta.”

Il world building della storia è ricco, interessante, il libro fa riferimento alla mitologia greca e a un mondo nascosto, coesistente con il nostro, in cui magia e tecnologia la fanno da padrona.
I continui accenni agli eventi metereologici, fatti dall’autrice, declinati anche nei diversi poteri elementari delle Stagioni, sono qualcosa di intrigante e sicuramente nuovo.
Però, ed è un grande però, tutto quello che considero il punto di forza della narrazione è stato trattato in maniera semplicistica, poco sviluppato, come se facesse semplicemente da contorno alle banali storie d’amore tra i personaggi.
Abbiamo interi capitoli dedicati all’introspezione (con concetti ripetitivi) e ai ricordi delle vite precedenti dei personaggi, che sono sicuramente importanti in un contesto del genere, ma che tolgono spazio a quello che la trama sembra promettere, creando carenze che si fanno sentire.
L’amore la fa da padrona, tutti sembrano innamorati e ricambiati in maniera esageratamente infantile per dei personaggi che invece dovrebbero avere dai 50 anni in su e che sono addestrati come assassini. È come se si tentasse di accoppiare tutti per forza.
Lo stile di scrittura è senza dubbio lineare e fluido, anche se ho trovato un po’ snervante la narrazione in prima persona con continue frasi del tipo: “Prendo questo\faccio quello”.
Sono presenti misteri, azione, magia, intrighi e sotterfugi ingegnosi che distraggono temporaneamente il lettore, anche se il risultato di tutta la trama è piuttosto scontato.
Il finale è stato a dir poco deludente, mi aspettavo qualcosa di più simile a una guerra aperta, magia che si scontrava, tempeste (come il titolo suggerisce), sovversione e invece tutto è stato trattato in maniera molto frettolosa.

Ho cercato di lasciarvi qualche estratto in più del testo perché Ragazzi della Tempesta non è stato un no pieno, più un NI.
Avevo sicuramente aspettative troppo alte, l’idea di base mi aveva affascinata molto, tuttavia il modo in cui è stata sviluppata mi ha lasciato l’amaro in bocca.
C’erano tutti i presupposti per un fantasy fresco, nuovo e avvincente, ma l’elemento romance ha eclissato tutto il resto.

Tirando le conclusioni, la lettura è sempre un’esperienza personale, difatti sul web ho trovato tante recensioni positive e pollici in su, perciò mi sento di consigliare Ragazzi della Tempesta per una lettura leggera, senza troppe aspettative.
Elle Cosimano, inoltre, ha da poco annunciato il secondo volume della saga, Seasons of Chaos. Spero vivamente che il secondo capitolo mi faccia ricredere.

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Recensione: Guida ai vizi e alle virtù per giovani gentiluomini, Mackenzi Lee

We are not broken things, neither of us. We are cracked pottery mended with laquer and flakes of gold, whole as we are, complete unto each other. Complete and worthy and so very loved.

Henry “Monty” Montague è nato per essere un gentiluomo, ma né i collegi più esclusivi d’Inghilterra né la disapprovazione del padre sono riusciti a imbrigliare le sue passioni: il gioco, il buon vino, e l’amore di una donna. O di un uomo. Monty si è infatti innamorato perdutamente del suo migliore amico, Percy, con il quale parte per il Grand Tour: un ultimo anno di fuga e di follie edonistiche prima di assumersi le sue responsabilità di lord. Ma un’incauta decisione trasformerà quel viaggio in una caccia all’uomo attraverso l’Europa, mettendo in discussione tutto il mondo di Monty.

Guida ai vizi e alle virtù per giovani gentiluomini è un romance storico con elementi fantasy della scrittrice Mackenzi Lee. L’edizione in questione contiene al suo interno anche il secondo romanzo della saga Montague Sibilings, Guida ai pizzi e alla pirateria per giovani gentildonne e, una breve novella, Guida alla fortuna in amore per giovani gentiluomini.
La saga si concluderà nel 2021 con l’uscita di The Nobleman’s Guide to Scandal and Shipwrecks.

Devo ammettere che avevo zero aspettative nei confronti di questo libro, complice l’edizione speciale che mi faceva pensare a un target di lettori più giovani e anche la non descrizione della trama che, invece, mi faceva pensare a una storia superficiale con i soliti baldi giovani scapestrati. Seguendo però il consiglio più banale in fatto di lettura, mai giudicare un libro dalla copertina, ho deciso di dargli una possibilità. Sin da subito sono stata ripagata da una storia interessante e fresca, leggera al punto giusto, piacevole e affatto banale, tanto che non sono riuscita a staccarmi dalle pagine fin quando non ho visto la parola fine e, anche allora, non è stato abbastanza, ho subito capovolto il libro e iniziato il romanzo successivo.

La storia si apre nella Londra del 1700, Monty e il suo amico Percy, per il quale il nostro protagonista ha una terribile infatuazione, devono intraprendere il Gran Tour, una tradizione dell’aristocrazia europea che consisteva in un viaggio per l’Europa, appunto, destinato ai giovani rampolli per accrescere la loro cultura e ampliare i loro orizzonti.
Monty, però, ha ben altri progetti per questo tour, la considera la sua ultima possibilità di passare del tempo con l’amico prima che il futuro e la crescita li dividano definitivamente.
Il rapporto conflittuale del nostro protagonista, nonché narratore, con il padre è sin da subito messo sotto gli occhi del lettore. La sfrontatezza e la dissolutezza del giovane vengono condannate duramente dal genitore (e dalla società) che minaccia di diseredarlo, il fardello di questi giudizi influirà inevitabilmente e pesantemente sul modo di agire del ragazzo.
I nostri protagonisti intraprendono quindi il Grand Tour, accompagnati da un tutore e dalla sorella di Monty, Felicity, con prima tappa Parigi, dove Monty dimostrerà appieno il suo carattere ribelle e istintivo, difatti si metterà subito nei guai.
Da qui partiranno una serie di peripezie che porteranno i tre protagonisti a vivere un’avventura intensa e inaspettata, si scontreranno con banditi, misteri, pirati, destinazioni sconosciute, alchimia e, inevitabilmente, con loro stessi.

Lo stile dell’autrice è estremamente coinvolgente e evocativo, l’ambientazione storica è curata nei minimi dettagli ed è palese che anche dietro il più piccolo richiamo c’è uno studio pazzesco. La caratterizzazione dei personaggi è pienamente riuscita, sono delineati davvero egregiamente, tanto che il carattere del protagonista è riuscito a dividere i lettori.
Personalmente credo che quando un personaggio letterario causi tanti sentimenti contrastanti si possa solamente lodare l’autrice per essere riuscita a renderlo il più realistico possibile, d’altronde gli esseri umani non sono perfetti, per tanto perché dovrebbero esserlo i personaggi di una storia?
Ho apprezzato molto l’inserimento di elementi fantastici che hanno donato una sfumatura gotica alle vicende, l’alchimia è stata quasi un tema must nei libri fantasy di quest’anno e mi è piaciuto il modo in cui l’autrice l’ha delineata.
Altro tratto interessante sono gli innumerevoli colpi di scena, capaci di dare un ritmo incalzante alla storia complessiva e di non far mai annoiare il lettore.
Un’ennesima nota positiva va alle importanti tematiche trattate, sempre con riferimento all’epoca storica in cui è ambientata la narrazione, come ad esempio l’omosessualità, il razzismo, le malattie e il femminismo.
Importante anche la crescita dei personaggi, la scrittrice li fa scontrare con la realtà e l’impatto li fa uscire dalla comfort zone a cui sono abituati.

Sono consapevole del fatto che molti lettori non hanno apprezzato questo libro, tuttavia penso sia, invece, perfetto per una lettura leggera e rilassante.
Se volete leggere di una dolcissima storia d’amore, di una storia di coraggio e di avventura, di una storia emozionante e ricca di sentimenti positivi, senza rinunciare al mistero e ai pericoli, questa è la lettura che fa per voi.

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Recensione: A Caccia del Diavolo, Kerri Maniscalco

“At some point, we’re all someone’s hero and another’s villain. It’s all a matter of perspective.”

Audrey Rose Wadsworth e Thomas Cresswell sono giunti in America, una terra audace, sfrontata, brulicante di vita. Ma, proprio come la loro Londra adorata, anche la città di Chicago nasconde oscuri segreti. Quando i due si recano alla spettacolare Esposizione internazionale, scoprono una verità sconcertante: l’evento epocale è minacciato da denunce di persone scomparse e omicidi irrisolti. Audrey Rose e Thomas iniziano a indagare, per trovarsi faccia a faccia con un assassino come non ne hanno mai incontrati prima. Scoprire chi sia è una cosa, ben altra faccenda è catturarlo, soprattutto all’interno del famigerato Castello degli Orrori che ha costruito lui stesso, un covo di torture labirintico e terrificante. Riuscirà Audrey Rose, insieme al suo grande amore, a porre la parola “fine” anche a questo caso? O soccomberà, preda del più subdolo avversario che abbia mai incontrato?

Il 10 Novembre arriva nelle librerie l’ultimo capitolo della tetralogia dell’autrice Kerri Maniscalco. A Caccia del Diavolo è il romanzo conclusivo della serie storico mystery con protagonista Audrey Rose Wadsworth, la saga sicuramente più desiderata, chiacchierata, detestata e amata del 2020.
Quando si arriva alla conclusione di un viaggio è doveroso tirare le somme e devo ammettere che, nonostante i diversi difetti riscontrati (come potete notare dalle precedenti recensioni), una volta voltata l’ultima pagina, non ho potuto fare a meno di provare una certa malinconia al pensiero di aver concluso questa avventura.
Ringrazio Oscar Mondadori per avermi dato la possibilità di leggere il libro in anteprima, penso che il loro reclutamento recensori sia una splendida iniziativa per tutti quei lettori impazienti come me che non fanno altro che controllare costantemente lo stato di avanzamento dei loro ordini librosi online.
Prima di inoltrarci nella recensione spoiler free del romanzo, voglio darvi una bella notizia, Oscar Mondadori (sempre sia lodato) ha di recente annunciato la futura pubblicazione del nuovo romanzo dell’autrice, Kingdom of the Wicked, un romanzo disgiunto da questa saga e per giunta ambientato in Italia.
La data è ancora inedita, ma sicuramente si tratta di una bella notizia per i fan dell’autrice. Quindi non demordete, una volta completato A Caccia del Diavolo, ritroveremo presto la penna della Maniscalco in una storia totalmente nuova.

A Caccia del Diavolo narra le vicende successive agli avvenimenti di In Fuga da Houdini, l’ambientazione inziale è New York. Il ritrovamento di alcuni corpi sulla RMS Etruria, non ricollegabili al modus operandi degli omicidi del serial killer catturato, fa pensare a un emulatore di Jack lo Squartatore. Il responsabile sembra seguire i passi dei nostri protagonisti, difatti anche a New York verranno rinvenuti cadaveri di donne brutalmente assassinate. Le vicende proseguono poi sullo sfondo dell’Esposizione Internazionale di Chicago, Audrey Rose, sempre più decisa a mettere un punto alla storia dello Squartatore che sembra continuare a perseguitarla, affronterà un’indagine su numerosi casi di donne scomparse, che sembrano essere state rapite dal demonio stesso.

In questo ultimo romanzo, la parte romance è sicuramente molto più consistente che nei precedenti libri della saga. Audrey Rose e Thomas sono cresciuti insieme affrontando difficoltà, mostri e criminali e sanno finalmente cosa desiderano l’uno dall’altra. La loro storia verrà messa in discussione per l’ultima volta da cause esterne, ma affronteranno le ultime difficoltà come un fronte unito, finalmente consci dell’amore reciproco.
La narrazione procede come sempre tra pizzi e perline e sangue e brividi.
È stato bello ritrovare tutti i personaggi secondari che hanno accompagnato i nostri protagonisti in questo viaggio per un ultimo saluto. Aggiunta indimenticabile è la nonna di Audrey Rose, una donna forte e determinata, molto legata alla nipote, che da subito apprezzerete.
Al di là delle vicende di vita quotidiana un’ombra incombe costantemente sulle loro vite, la nostra protagonista è preda di incubi e paure, nonostante il killer non sia fisicamente presente nei primi capitoli è come se non abbandonasse mai la scena, la minaccia e il terrore che suscita sono palpabili, anche se velati.
In A Caccia del Diavolo, Kerri Maniscalco ci svela il disegno complessivo della sua opera, chiudendo finalmente il cerchio con le vicende iniziate in Sulle Tracce di Jack lo Squartatore, rendendo omaggio a un altro capolavoro classico, quello di Robert Louis Stevenson.
Non aggiungo altro per non rovinarvi la sopresa.
Ho apprezzato molto la descrizione del castello degli orrori, trovando la giusta sfumatura dell’orrore, appunto, e l’impronta data al killer di quest’ultima vicenda, oltre al coraggio della protagonista, pronta a scatenare i propri mostri pur di fare vendetta e proteggere le persone che ama.

Che dire in conclusione, è stato un viaggio meraviglioso, un’avventura gotica indimenticabile. Abbiamo visitato insieme le strade fumose di Londra, il terrificante Castello del Principe Dracula, abbiamo attraversato l’Atlantico su una nave da crociera e abbiamo passeggiato per le strade di New York e Chicago, sempre alla ricerca di spietati serial killer.
Ci sono state cose che ci hanno fatto storcere il naso (scusa Audrey Rose), ma tutti sappiamo che si tratta di uno Young Adult, ed è essenziale riconoscere il merito all’autrice di aver creato una saga innovativa e interessante, cupa al punto giusto e ricca di mistero.

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Recensione: Le diecimila porte di January, Alix E. Harrow

It is at the moments when the doors open, when things flow between the worlds, that stories happen.”

Estate 1901. Un’antica dimora nel Vermont, piena di cose preziose e sorprendenti. La più peculiare è forse January Scaller, che vive nella casa sotto la tutela del facoltoso signor Locke. Peculiare e atipica, almeno, è come si sente lei: al pari dei vari manufatti che decorano la magione è infatti ben custodita, ampiamente ignorata, e soprattutto fuori posto. Suo padre lavora per Locke, va in giro per il mondo a raccogliere oggetti “di un valore singolare e unico”, e per lunghi mesi la ragazzina rimane nella villa ridondante di reperti e stranezze, facendo impazzire le bambinaie e, soprattutto, rifugiandosi nelle storie. E così che, a sette anni, January trova una porta. Anzi, una Porta, attraverso cui si accede a mondi incantati che profumano di sabbia, di antico e di avventura… Sciocchezze da bambini. Fantasie assurde, le dicono gli adulti. E January si impegna con tutta se stessa per rinunciare a quei sogni di mari d’argento e città tinte di bianco. Per diventare grande, insomma. Fino al giorno in cui, ormai adolescente, non trova uno strano libriccino rilegato in pelle, con gli angoli consumati e il titolo stampigliato in oro semiconsunto: “Le diecim por”. Un libro che ha l’aroma di cannella e carbone, catacombe e terra argillosa. E che porta il conforto di storie meravigliose nel momento in cui January viene a sapere che il padre è disperso da mesi. Probabilmente morto. Così la ragazza si tuffa in quella lettura che riaccende il turbine di sogni irrealizzabili. Ma lo sono davvero? Forse basta avere il coraggio di inseguirli, quei sogni, per farli diventare realtà. Perché pagina dopo pagina January si accorge che la vicenda narrata sembra essere indissolubilmente legata a lei…

Le diecimila porte di January è un portal fantasy autoconclusivo della scrittrice Alix E. Harrow ambientato agli inizi del 900. Ma ne siamo sicuri? Il libro in questione, a mio parere, non ha una datazione esatta a cui poter essere imbrigliato e neppure un arido unico protagonista, perché racconta una storia che ci riguarda tutti. Racconta di un viaggio alla ricerca di se stessi, del senso di estraneità, di quel sentimento di non appartenenza che ti fa sentire solo al mondo, della necessità di affermare il proprio io, di lotta per la propria libertà, di deprecabile odio razziale e di discriminazioni, di sogni che ci sembrano infantili una volta cresciuti e di una porta, con la P maiuscola, che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sognato di oltrepassare per fuggire da una realtà che ci sta stretta. Niente di più attuale e calzante, impossibile non riconoscersi nei sentimenti dei personaggi, o comprenderne i disagi.

January Scaller è la protagonista di questo libro, la conosciamo sin da subito come una bambina vivace e curiosa ma, al contempo, estremamente disciplinata, perché costantemente obbligata dal tutore a reprimere quel naturale sentimento di disubbidienza caratteristico di tutti i bambini. A sette anni January trova una porta con la P maiuscola che affaccia su un altro mondo, ma in seguito si costringe a dimenticare, accantonando il ricordo come sciocca fantasia infantile. Crescendo la ragazza soffrirà spesso la solitudine, il padre lavora per il Signor Locke ed è spesso in viaggio alla ricerca di oggetti rari e preziosi. Il Signor Locke è un collezionista, la sua villa è un museo pieno di stranezze e manufatti unici, e January spesso si sente parte della collezione, esposta al pubblico durante feste e banchetti alla stregua di un oggetto, a causa della sua pelle dal colore unico e delle sue origini incerte. Un giorno le viene data la notizia che il padre è scomparso, ritenuto morto, January allora trova finalmente il coraggio di ribellarsi al suo benefattore e scopre di possedere un potere unico. Da qui inizieranno una serie di peripezie, la nostra protagonista diverrà oggetto di crudeltà indicibili, perderà fiducia nelle persone a cui era più legata, al contempo rinforzerà il legame con nuovi amici e troverà rifugio in un libriccino consumato trovato in uno scrigno, intitolato “Le diecimila port”. Questo libriccino ci racconta la storia di Adelaide Larson, una giovane donna coraggiosa e intraprendente, vissuta in America nella metà del 800. Adelaide è venuta a conoscenza delle Porte attraverso l’incontro fortuito con un ragazzo fantasma, del quale finisce per innamorarsi, per ritrovarlo intraprende un avventuroso e disperato viaggio in capo al mondo. January ben presto si renderà conto che la sua storia e quella contenuta nel libro sono legate indissolubilmente, e dunque sceglierà di dare il via anche lei alla propria avventura.

Lo stile di Alix E. Harrow è unico, straordinario, lo stile chiaro ed evocativo riesce ad immergere completamente il lettore nel contesto storico, c’è cura per i dettagli, i personaggi sono tutti perfettamente caratterizzati e capaci di restare impressi nella mente. Ho adorato l’espediente del racconto nel racconto, trovando la storia contenuta nel libriccino rinvenuto dalla protagonista, più interessante delle contemporanee vicende vissute da January. Mentirei se dicessi che questa è una lettura facile, ci vuole pazienza per portarla a termine, bisogna soprassedere alla mancanza di carattere della protagonista, sapendo che di certo la scrittrice ha un buon motivo per renderla in quel modo. Non basta approcciarsi a questo libro in maniera superficiale ma bisogna essere capaci di guardare sempre oltre, al disegno complessivo. Le Porte la fanno da padrona, sono queste, insieme all’elemento chiave del viaggio, gli ingredienti magici del racconto. Le Porte, varchi verso nuovi mondi che implicano il cambiamento, diventano sinonimo di progresso, conoscenza, emancipazione e per questo devono essere distrutte.

Il paragone con Il mare senza stelle di Erin Morgestern, uscito anch’esso quest’anno, sorge spontaneo, ma in realtà le storie non potrebbero essere più differenti. Le diecimila porte di January è un fantasy più realistico, la scrittrice ha una fantasia più moderata, trattenuta, tanto che dei diecimila mondi viene fatto solo qualche magistrale accenno. Questa è stata un po’ una delusione, mi aspettavo un vero e proprio viaggio in mondi sconosciuti e fantastici, anche i poteri della protagonista e delle creature che incontra sono descritti brevemente, poco approfonditi. Tuttavia queste mancanze sono state colmate da un numero infinito di note positive, dunque consiglio a tutti di leggere questo libro meraviglioso.

Il finale è stato un colpo al cuore, verso la fine la storia esplode, January non è più una ragazza nel mezzo perché finalmente trova il proprio posto nel mondo. Nel complesso questo è un fantasy che tratta tematiche importanti come il valore della famiglia e dell’amicizia, dell’amore, di crescita, avventura e battaglie personali, imperdibile.

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Recensione: Alla ricerca del principe Dracula, Kerri maniscalco

The world is neither kind nor is it cruel. It simply exists. We have the ability to view it however we choose.”

Dopo aver scoperto con orrore la vera identità di Jack lo Squartatore, Audrey Rose Wadsworth lascia la sua casa nella Londra vittoriana per iscriversi – unica donna – alla più prestigiosa accademia di Medicina legale d’Europa. Ma è davvero impossibile trovare pace nell’oscuro, inquietante castello rumeno che ospita la scuola, un tempo dimora del malvagio Vlad l’Impalatore, altrimenti noto come Principe Dracula. Strane morti si susseguono, tanto da far mormorare che il nobile assetato di sangue sia tornato dalla tomba. Così Audrey Rose e il suo arguto compagno, Thomas Cresswell, si trovano a dover decifrare gli enigmatici indizi che li porteranno all’oscuro assassino. Vivo o morto che sia.

In attesa dell’arrivo nelle librerie del quarto e ultimo volume, A caccia del diavolo, che sto leggendo in anteprima grazie alla Oscar Mondadori, ho finalmente deciso di parlarvi della saga di Kerri Maniscalco. Avevo letto tutti e tre i libri a Settembre e, a causa della mia incurabile procrastinazione, da tempo cercavo un motivo per occuparmi di loro. Prima di procedere con la recensione, ci tengo a sottolineare, che questo secondo volume non contiene spoiler riguardo il mistero del primo libro, perciò per chi lo desiderasse (e non è maniacale come me) può essere letto anche da solo.

Dopo pochi mesi dagli avvenimenti del primo libro, Audrey Rose e Thomas si trovano in viaggio sull’Orient Express alla volta della Transilvania. La destinazione è il castello di Bran, sede della più prestigiosa accademia di medicina legale d’Europa, nonché antica dimora di Vlad l’impalatore, altrimenti conosciuto come Principe Dracula. I due si trovano in uno scompartimento, in compagnia della deliziosa chaperon Mrs Harvey e dei suoi tonici da viaggio, quando all’improvviso viene rinvenuto un cadavere all’interno del treno, un uomo con un paletto grezzo conficcato nel cuore. Il ritrovamento desterà sin da subito terrore e suggestioni tanto che i nativi cominceranno a paventare il ritorno del Principe di Valacchia, riportando alla luce antiche leggende e folklore, opinione che verrà alimentata dalla futura scoperta di nuovi corpi, completamente dissanguati. In questo secondo libro la nostra protagonista si troverà ad affrontare un’indagine complessa che rischia costantemente di sfumare nel soprannaturale, ma prima di riuscire a risolvere il caso dovrà necessariamente fare i conti con i fantasmi del proprio passato.

Alla ricerca del principe Dracula è un libro che funziona, lo stile della Maniscalco si riconferma diretto e lineare, perfetto per una lettura scorrevole e piacevole. Dimenticatevi i tentennamenti di Sulle Tracce di Jack lo Squartatore, in questo secondo volume niente è lasciato al caso, la trama si presenta più complessa, i tratti della storia sono suggestivi, l’ambientazione stessa è oscura e intrigante, così come lo sono le leggende che sembrano prendere vita, in un perfetto omaggio al Dracula di Bram Stoker. Viene prestata maggior attenzione all’introspezione dei personaggi, Audrey Rose, nonostante gli immutati difetti, persegue con fervore la battaglia per affermare il proprio posto in una società maschilista, e si trova, al tempo stesso, a dover affrontare il trauma del caso dello Squartatore che probabilmente la segnerà per sempre. Il suo rapporto con Thomas Cresswell si evolve sotto gli occhi del lettore, matura e si definisce attraverso la limatura di inevitabili controversie, in un modo che è sicuramente necessario perché ci appaia più realistico, ma assente nel primo capitolo della saga. Molto apprezzabili sono anche i nuovi personaggi introdotti dalla Maniscalco, capaci di rendere il ritmo dell’opera più vivace e di infittire gli interrogativi circa i criptici enigmi che sembrano tirare i fili della trama. I misteri sono il pezzo forte di questo libro, le leggende sanguinarie che infestano le credenze locali rendono l’atmosfera gotica, creando quasi un clima dell’orrore, così come il terrificante castello, ricco di passaggi segreti, sotterranei, cripte, e la fitta foresta che sembra il posto perfetto in cui anche il peggiore degli incubi può incarnarsi. Come sempre impossibile non lodare lo studio che sta dietro a tutto questo, la Maniscalco dimostra un’ottima conoscenza della storia oltre che della medicina forense, necessaria per creare le basi di un thriller storico come questo. L’indagine, in questo caso, si intreccia a tinte soprannaturali che la rendono affascinante e più difficile da sbrogliare, il finale è sicuramente sorprendente perché l’autrice ci cala completamente nell’atmosfera dark e sanguinaria che ci aspettavamo.

Se proprio devo trovare un difetto (e stranamente stavolta non sei tu Audrey Rose), ho trovato incompatibile l’ipotesi dell’assassino soprannaturale che tenta a tutti i costi di venire imposta al lettore. Il ragionamento scientifico che contraddistingue la saga mal si adatta a cedere sotto la scure del folklore, rendendo prevedibile il finale. Mentre leggevo, la mia mente traditrice, ha creato un impietoso parallelismo tra la storia e Scooby-Doo, in cui, a fine puntata, viene calata la maschera al mostro di turno e scoperto l’uomo.

Spero vi abbia fatto piacere leggere questa recensione, Alla ricerca del principe Dracula mi è piaciuto molto, e spero di parlarvi presto anche degli altri capitoli della saga.

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Recensione: Sulle tracce di Jack lo Squartatore, Kerri Maniscalco

Roses have both petals and thorns, my dark flower. You needn’t believe something week because it appears delicate. Show the world your bravery.

È stata cresciuta per essere la perfetta dama dell’alta società vittoriana, ma Audrey Rose Wadsworth vede il proprio futuro in modo molto diverso. Dopo aver perso l’amatissima madre, è decisa a comprendere la natura della morte e i suoi meccanismi. Così abbandona l’ago da ricamo per impugnare un bisturi da autopsia, e in segreto inizia a studiare Medicina legale. Presto viene coinvolta nelle indagini sull’assassino seriale noto come Jack lo Squartatore e, con orrore, si rende conto che la ricerca di indizi la porta molto più vicina al suo mondo ovattato di quanto avrebbe mai creduto possibile. Ispirato agli efferati crimini irrisolti che hanno insanguinato la Londra di fine Ottocento, lo strabiliante romanzo d’esordio di Kerri Maniscalco tesse un racconto ricco di atmosfera che intreccia bellezza e oscurità, in cui una ragazza vittoriana molto moderna scopre che non sempre i segreti che vengono sepolti lo rimangono per sempre.

Sulle tracce di Jack lo Squartatore è il primo libro della saga young adult scritta da Kerri Maniscalco, con protagonista Audrey Rose Wadsworth. Si tratta di un thriller storico ambientato nella Londra Vittoriana. Come il titolo suggerisce, le vite dei protagonisti vengono stravolte dai brutali assassinii messi in atto da Jack lo Squartatore, in una Londra dalle atmosfere fosche partirà una caccia al responsabile che porterà la nostra protagonista a dubitare di chiunque.

Kerri Maniscalco rimescola le carte del caso irrisolto più misterioso di sempre, proponendolo in maniera intrigante e attuale. È evidente lo studio che c’è alle spalle di questo testo. Mi è piaciuto il fatto che al termine del libro venissero riportati gli avvenimenti realmente accaduti (come ad esempio i nomi delle vittime dell’assassino seriale o le datazioni esatte) e le differenze rispetto alla storia narrata nelle pagine. Trovo che la scelta di romanzare la realtà sia stata giusta e ben ponderata. L’autrice, difatti, nonostante segua le vicende storiche, dona una caratterizzazione gotica alla vicenda, richiamando il Frankenstein di Mary Shelley, e sfumature che strizzano l’occhio allo steampunk.

La storia è raccontata dal punto di vista di Audrey Rose, una ragazza appartenente all’alta società londinese, che lotta per perseguire il sogno di studiare medicina legale, in un mondo che ha una visione maschilista e misogina. In seguito al decesso della madre, la famiglia di Audrey Rose inevitabilmente perde stabilità, la protagonista ha un rapporto difficile con il padre, fatto di silenzi e soffocanti apprensioni, e anche il fratello non sembra più quello di un tempo. La ragazza viene costantemente supportata dallo zio, disposto a darle lezioni di dissezione in segreto. Sarà proprio nello studio dello zio che incontrerà il secondo protagonista, il misterioso apprendista Thomas Cresswell, con cui si ritroverà ad indagare sugli efferati omicidi di Jack lo Squartatore.
Audrey Rose ci viene tratteggiata come una ragazza sveglia, con una mente logica, deduttiva, in cerca della propria emancipazione. Se da un lato però rifiuta le convenzioni dell’epoca riguardanti la posizione sociale riservata alle donne, dall’altro si mostra poco scaltra nell’affermare le proprie scelte, a tratti immatura e superficiale. Difficile comprendere la scelta dell’autrice nel delineare questo personaggio, inevitabile non riscontrare le tante contraddizioni. Mentre tenta di gridare girl power non fa altro che giudicare donne meno fortunate e contemplare svenevolmente il compagno d’indagine. Thomas Cresswell, è sicuramente più interessante come personaggio, anche se è chiaro che sia stato creato appositamente per far innamorare il lettore. Anche lui dotato di una mente acuta, che richiama palesemente Sherlock Holmes, un ragazzo misterioso e sarcastico, con un ottimo spirito d’osservazione.

Per quanto riguarda lo stile del libro, ho trovato i primi capitoli frettolosi, superficiali, avrei preferito fosse dedicata più attenzione alla cura dei dettagli e che l’autrice lasciasse meno allo scontato e ci inoltrasse più a fondo nella vita di Audrey Rose. Arrivati a metà libro, lo stile inizia a cambiare radicalmente, come se la penna della Maniscalco si fosse finalmente riscaldata a dovere. Impossibile non lodare la conoscenza e lo studio dimostrati riguardanti la scienza e la medicina, è sempre molto interessante scoprire branche del genere quando lo scrittore dimostra di sapere senza esagerare o diventare pedante. Un po’ deludente invece la scelta di non sciogliere alcuni interrogativi che sorgono nel libro, come quello riguardante il soprannaturale, che avrei preferito venissero chiariti dalla storia anziché dalla mente del lettore. Molto intrigante l’edizione, curata dalla Oscar Mondadori, che presenta anche scatti d’epoca tra i capitoli, come questa sottostante.

L’autrice ci lascia alcuni indizi nelle pagine, a mo’ di briciole di pane, scegliendo di farci scoprire subito il colpevole, ma non il movente. Questo è l’espediente che ho gradito di più, oltre all’idea nel complesso, il finale è stato ciò che esattamente mi aspettavo da questo libro. Arrivata alle pagine finali, ho finalmente trovato quell’atmosfera oscura, macabra, e il brivido che attendevo. Peccato però per il dosaggio esiguo. Complessivamente è stata una lettura piacevole, nonostante la protagonista. Spero di parlarvi presto anche degli altri due volumi della serie, che sicuramente ho apprezzato maggiormente.

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Recensione: Serpent and Dove, Shelby Mahurin

I never said it was your god. Your god hates women. We were an afterthought.

Louise le Blanc è fuggita dalla sua congrega e si è rifugiata a Cesarine, rinunciando a ogni forma di magia e vivendo di furti ed espedienti. Perché in quella tetra città le streghe come lei fanno paura. Vengono braccate. E mandate al rogo.
Reid Diggory è un cacciatore, ha giurato fedeltà alla Chiesa e da sempre vive secondo un unico, ferreo principio: uccidere le streghe. La sua strada non avrebbe mai dovuto incrociare quella di Lou, eppure un perverso scherzo del destino li costringe a un’unione impossibile: il santo matrimonio.
Ma anche se quella tra le streghe e la Chiesa è una guerra antica come il mondo, un nemico crudele ha in serbo per Lou un destino peggiore del rogo. E lei, che non può cambiare la propria natura e nemmeno ignorare i sentimenti che stanno sbocciando nel suo cuore, si trova di fronte a una scelta terribile.

Serpent and Dove, la strega e il cacciatore, di Shelby Mahurin è il primo capitolo di una trilogia paranormal fantasy. L’ambientazione è la Francia vittoriana del XVII secolo, più precisamente la città immaginaria di Cesarine. L’autrice innesta elementi fantastici in un contesto storico reale, traendo spunti dalla mitologia e dalle leggende francesi, come quelle sulle Dame Blanche e sulle Dame Rouge, e riprendendo uno dei filoni più classici riguardanti la stregoneria, la caccia alle streghe ad opera della Chiesa.

La trama è raccontata attraverso due punti di vista, quello di Louise, o Lou, e quello di Reid. La prima è una strega appartenente alla congrega delle Dame Blanche, costretta a cercare rifugio nella città di Cesarine e vivere di furti e inganni per allontanarsi da un misterioso passato che non l’ha mai realmente abbandonata. Una donna forte, in cerca della propria indipendenza, disposta a tutto pur di sopravvivere, legata da un forte legame di amicizia con Cosette, Coco, che a sua volta è una Dame Rouge, una strega del sangue. Reid è il comandante degli chasseur, i cacciatori di streghe a servizio della Chiesa, cresciuto e forgiato dalla figura dell’arcivescovo di Cesarine. Ci viene dipinto come un uomo bigotto, che aborrisce la stregoneria, estremamente leale alla causa che serve, fermo nelle proprie convinzioni e con un forte senso dell’onore. I due protagonisti, nemici mortali, si scontreranno più volte, creando una serie di peripezie che li porterà all’altare e alla convivenza forzata.

La cosa che più mi ha intrigato di questo libro è sicuramente la capacità dell’autrice nel descrivere la magia. Attraverso poche parole evocative, difatti, riesce a creare un mondo intrigante e oscuro in cui ogni sortilegio ha un prezzo. Le streghe si rivelano terrificanti, crudeli, senza scrupoli nella lotta contro la Chiesa e la famiglia reale per la propria libertà. Le descrizioni non sono mai banali, stuzzicano la fantasia del lettore senza mai scivolare nel macabro o nello scontato.

Purtroppo però, quello che doveva essere il tema centrale, viene messo da parte per far spazio alla storia d’amore tra i due protagonisti. Serpent and Dove ha una forte, totalizzante, componente romance, anche troppa. La storia parte a rilento, tutta la parte centrale del libro è incentrata sul rapporto tra Lou e Reid, abbiamo qualche colpo di scena, misteri, ma l’azione e la vera trama si concentrano tutte sul finale. Evito spoiler per chi non l’avesse ancora letto. Penso sia stata una scelta mirata dell’autrice quella di utilizzare questo primo libro per presentarci innanzitutto i personaggi, farci entrare nel loro mondo, e per prepararci, spero, a ciò che ci aspetta nei libri successivi.

La cosa che mi è piaciuta meno è la caratterizzazione dei personaggi, è inevitabile riscontrare delle scopiazzature, ed è davvero deludente considerando il potenziale della trama complessiva. Lou è stata creata in laboratorio, combinando Aelin Galathynius (Il Trono di Ghiaccio, Sarah J. Maas), che detesto, e l’adorabile appetito di Nina Zenik (Sei di Corvi, Leigh Bardugo). L’intera storia tra lei e Reid è palesemente ispirata al rapporto conflittuale tra Nina Zenik e Matthias Helvar (sempre Sei di Corvi). Banalmente, ho trovato più interessanti e piacevoli i personaggi secondari, persino gli antagonisti presentano un maggiore studio e una maggiore componente innovativa.

È un vero peccato, a mio avviso, giocarsi tutto sulla storia d’amore non originale quando invece si hanno capacità simili, confido comunque sui prossimi libri della trilogia. Sul web ho trovato un sacco di pareri positivi su questo libro, quindi, come sempre, vi invito a non farvi condizionare, in quanto la lettura è sempre un’esperienza soggettiva. Complessivamente Serpent and Dove è sicuramente una lettura leggera, utile per staccare dalla monotonia quotidiana, emozionante, carica di sentimenti positivi come l’amicizia, l’amore, la forza dei legami e la speranza.

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Recensione: Thunderhead, Neal Shusterman

If we were judged by the things we most regret, no human being would be worthy to sweep the floor.

Trama: In un mondo che ha sconfitto fame, guerre e malattie, le falci decidono chi deve morire. Tutto il resto è gestito dal Thunderhead, una potentissima intelligenza artificiale che controlla ogni aspetto della vita e della società. Tranne, appunto, la Compagnia delle falci. Dopo il loro comune apprendistato, Citra Terranova e Rowan Damisch si sono fatti idee opposte sulla Compagnia e hanno intrapreso strade divergenti. Da ormai un anno Rowan si è ribellato ed è fuggito, diventando una vera leggenda: Maestro Lucifero, un vigilante che mette fine alle esistenze delle falci corrotte, indegne di occupare la loro posizione di privilegio. Di lui si sussurra in tutto il continente. Ormai divenuta Madame Anastasia, Citra è una falce anomala, le sue spigolature sono sempre guidate dalla compassione e il suo operato sfida apertamente il nuovo ordine. Ma quando i suoi metodi vengono messi in discussione e la sua stessa vita minacciata, appare evidente che non tutti sono pronti al cambiamento. Il Thunderhead osserva tutto, e non gli piace ciò che vede. Cosa farà? Interverrà? O starà semplicemente a guardare mentre il suo mondo perfetto si disgrega?

Finalmente, domani 13 ottobre,  arriva nelle libreria italiane il secondo capitolo della trilogia della falce di Neal Shusterman, Thunderhead.

Devo ringraziare la Oscar Mondadori per avermi dato la possibilità di leggere questo straordinario libro in anteprima, ho divorato Falce in pochi giorni e non vedevo l’ora di scoprire come sarebbe proseguita la storia.

Neal Shusterman ci ha fatto dono di una distopia utopistica capace di dare nuovo respiro al genere che si era, a mio avviso, impantanato sempre nelle stesse linee guida.

L’ambientazione di questa trilogia è un mondo futuristico in cui tutti i mali potenzialmente in grado di affliggere l’uomo sono venuti meno. Non si muore più per cause naturali, non ci si ammala, le persone sono in grado di ringiovanirsi all’età che preferiscono, non c’è povertà o fame e ogni aspetto della vita funziona alla perfezione sotto l’occhio vigile e attento del Thunderhead, un’intelligenza artificiale che mantiene gli equilibri del mondo, sempre pronto a sopperire in ogni modo possibile alle mancanze dell’uomo. Il risvolto negativo di questo mondo perfetto e visionario è costituito dal sovrappopolamento, ed è qui che entra in gioco l’Ordine delle Falci, unico punto ceco nella visione a 360 gradi della nostra intelligenza artificiale. L’Ordine viene creato appositamente per ovviare al problema della sovrappopolazione terrestre tramite le “spigolature”, ovvero, poco gentilmente, omicidi premeditati. Ogni falce ha una quota di esecuzioni da portare a termine e queste devono essere eseguite rispettando rigidamente i principi della Compagnia. Ma inevitabilmente, come per ogni cosa lasciata nelle imperfette mani degli uomini, a lungo andare nell’Ordine si crea una frattura intestina, causata da due visioni ideologiche contrapposte, che finirà per causare un conflitto che segnerà il futuro dei nostri protagonisti.

Per chi non avesse ancora letto Falce, cosa aspettate?!

Passiamo invece alla recensione di Thunderhead. È davvero difficile parlarne cercando di evitare possibili spoiler, quindi cercherò di essere il più possibile sintetica.

Lo stile di scrittura dell’autore è fluido e scorrevole, curato in ogni minimo dettaglio e sempre più geniale. Il secondo capitolo supera le aspettative, se difatti il primo mostrava alcune lacune che mi avevano fatto storcere il naso, in Thunderhead ci vengono finalmente forniti i tasselli mancanti per una visione completa.

L’autore si sofferma con maggiore cura sulla società che circonda i nostri protagonisti, con maggiori dettagli, ad esempio, sul culto religioso dei Tonisti, introducendo le figure dei Loschi, persone che hanno scelto di condurre una vita criminale, e illustrandoci anche ciò che accade nelle diverse parti del mondo. Il ritmo della storia è più incalzante rispetto al primo capitolo della trilogia, abbiamo colpi di scena, suspense, l’introduzione di nuovi personaggi e molta più azione.

Importante è anche la crescita dei protagonisti: troviamo una Citra più matura, sicura di sé e pronta a far valere il suo pensiero, sempre più legata al suo mentore, Madame Curie; l’evoluzione scelta per Rowan è sicuramente quella che preferisco, è la conferma che, nonostante si perseguano giusti principi, le azioni per raggiungerli delle volte possono risultare brutali, ciò fa di lui, a mio avviso, il personaggio più credibile e sfaccettato, fragilmente umano. Lo scrittore ci introduce anche un nuovo personaggio, Greyson, che sicuramente avrà un ruolo rilevante nella storia.

Ciò che ho maggiormente apprezzato sono i capitoli dedicati al pensiero del Thunderhead, che, anche se estrapolati dal contesto, costituiscono delle vere e proprie gemme. Se questa intelligenza artificiale ci era apparsa misteriosa nel primo libro, nel secondo ci viene mostrata in modo più chiaro e completo, ho adorato la sua visione onnisciente, il fatto che riesca a provare sentimenti, il modo in cui guarda e si rapporta agli umani e la spiegazione delle sue capacità. Come il titolo del libro ci suggerisce, è lui il protagonista indiscusso della storia, capace di oscurare persino i complessi e interessanti interrogativi sulla morte, fornendoci continuamente profondi spunti riflessivi.

La trama è avvolta da un alone di mistero, lasciando al lettore il compito di proseguire la lettura fino alla fine per svelare tutti gli interrogativi. Thunderhead è un libro che merita davvero di essere letto, avrei preferito forse più capitoli incentrati sui protagonisti per riuscire a comprenderli al meglio, e anche per capire di più lo sviluppo di alcune relazioni (che nel primo libro sembravano nascere sulla base del nulla), ma capisco che si tratti di una scelta stilistica e che in fondo la storia non poteva essere più perfetta di com’è.

Il finale è stato davvero inaspettato, Neil Shusterman ci ha lanciato una vera e propria bomba, non vedo l’ora di leggere il seguito!

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Recensione: L’orso e l’usignolo, Katherine Arden

Tu cavalcherai fino a dove la terra incontra il cielo. Nascerai tre volte: una volta dall’illusione, una dalla carne e un’altra dallo spirito. Coglierai bucaneve nel cuore dell’inverno, piangerai per un usignolo e morirai per tua volontà.”

In uno sperduto villaggio ai confini della tundra russa, l’inverno dura la maggior parte dell’anno e i cumuli di neve crescono più alti delle case. Ma a Vasilisa e ai suoi fratelli Kolja e Alësa tutto questo piace, perché adorano stare riuniti accanto al fuoco ascoltando le fiabe della balia Dunja. Vasja ama soprattutto la storia del re dell’inverno, il demone dagli occhi blu che tutti temono ma che a lei non fa alcuna paura. Vasilisa, infatti, non è una bambina come le altre, può “vedere” e comunicare con gli spiriti della casa e della natura. Il suo, però, è un dono pericoloso che si guarda bene dal rivelare, finché la sua matrigna e un prete da poco giunto nel villaggio, proibendo i culti tradizionali, compromettono gli equilibri dell’intera comunità: le colture non danno più frutti, il freddo si fa insopportabile, le persone vengono attaccate da strane creature e la vita di tutti è in pericolo. Vasilisa è l’unica che può salvare il villaggio dal Male, ma per farlo deve entrare nel mondo degli antichi racconti, inoltrarsi nel bosco e affrontare la più grande minaccia di sempre: l’Orso, lo spaventoso dio che si nutre della paura degli uomini. Nell’incantevole scenario della tundra russa, il primo capitolo di una nuova trilogia fantasy.

Devo essere sincera, inizialmente questo libro non mi aveva convinta del tutto, lo trovavo pubblicizzato ovunque sui social e pensavo che sarebbe stata l’ennesima delusione. Non potevo sbagliarmi di più, quest’estate ho divorato questa trilogia senza rendermene conto e una volta terminata avevo voglia di rileggerla d’accapo. Oggi è sicuramente tra le letture che ho amato di più, per chi non l’avesse ancora scoperta consiglio vivamente di recuperare!

Lo stile di questo libro è fiabesco, fluido, tanto da farti rimanere con il naso incollato alle pagine per scoprire come prosegue. Non poteva essere altrimenti in una gelida terra invernale, carica di magia e leggende. Mi è piaciuto molto il fatto che gli incipit di tutti e tre i libri fossero uguali, difatti iniziano tutti con il racconto di una diversa leggenda russa che in qualche modo condizionerà gli eventi successivi.

Ne l’orso e l’usignolo, il lettore viene sin da subito inserito nella quotidianità familiare di Vasja, la protagonista, conosce la famiglia Vladimirovič e si ritrova insieme a loro, seduto accanto al forno, ad ascoltare la storia di nonno gelo, il signore dell’inverno, Morozko, dalla vecchia balia Dunja. L’ambientazione è l’antica Rus’, di cui riporta le tradizioni e l’interessante folklore, trattando di mitologia, spiriti, demoni e vampiri. Ho trovato interessante scoprire le tradizioni dell’epoca, le strutture delle dimore, come si svolgeva la vita nei villaggi, il vestiario tipico, i riti funebri e tanti altri approfondimenti che aumenteranno nei due libri successive. È evidente la ricerca che sta dietro a queste pagine. Katherine Arden dimostra una conoscenza profonda degli usi e costumi medievali, della storia russa e anche del “profano”, parlandoci dei diversi spiriti della tradizione: sia di quelli che popolano le dimore, come ad esempio il Domovoj, lo spirito del forno, che di quelli che popolano la tundra, come la Rusalka, lo spirito del fiume.

La storia è incentrata su Vasja e la sua famiglia, una bambina con la capacità di vedere gli spiriti che la porterà a venire allontanata dalla gente del suo villaggio e additata come strega. La crescita la renderà̀ una protagonista indimenticabile con un cuore selvaggio, una forza immensa e un disperato bisogno di libertà. La nostra protagonista difatti non cede alle convenzioni sociali dell’epoca, che la vorrebbero moglie o in monastero, in tutto il libro combatterà per la sua libertà di scelta e per essere ciò che è senza alcun limite, assecondando il suo dono unico, in una continua crescita personale che si evolverà magistralmente in questa trilogia della notte d’inverno.

Nella storia il sacro si scontra con la mitologia, in una terra in cui non possono convivere entrambi. Vediamo come la religione soppianta le credenze popolari, tramutandosi in un modo per irretire le masse, direzionandole attraverso la paura e i sofismi, e più spazio viene dedicato a questa meno le creature del folklore riescono a sopravvivere. Ma davvero c’è molto, molto di più̀ da scoprire.

Tutti i personaggi sono caratterizzati in modo incredibile, dall’affascinante re dell’inverno, al tormentato e crudele Orso, alla famiglia di Vasja, all’antagonista, Padre Kostantine, che l’autrice ha reso davvero magistralmente, è veramente complesso il modo in cui è stato rappresentato, non sono riuscita ad odiarlo perché l’autrice l’ha realizzato talmente perfetto nei suoi difetti che non si può non apprezzare.

Una fiaba appassionante da cui lasciarsi stregare, uno stile talmente vivido e ricco che ti trascina dentro la storia senza chiederti il permesso. Ho amato profondamente questo libro nonostante i difetti, sono felice che la trama migliori notevolmente con i due libri successivi, ad esempio per il modo in cui l’autrice approfondirà il rapporto con Solovej, il cavallo di Vasja.

Unica pecca, per me, le copertine terribili (ho provato a non scriverlo), che potevano essere curate un po’ di più vista la bellezza del contenuto.

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Recensione: Midnight Sun, Stephenie Meyer

“For just a second, I saw Persephone, pomegranate in hand. Dooming herself to the underworld. Is that who I was? Hades himself, coveting springtime, stealing it, condemning it to endless night.”

Dopo 15 anni dall’uscita di Twilight, Stephenie Meyer ci offre un biglietto di sola andata per Forks, un ritorno alle origini, per rivivere l’inizio della storia d’amore più improbabile di sempre, quella tra Bella ed Edward.

Inutile negare l’effetto placebo della saga sugli adolescenti dell’epoca e la risonanza che questo urban fantasy ha avuto sugli altri scrittori, nonostante le serrate critiche sulla trama, i continui paragoni con altre saghe completamente differenti e i film tremendi.

Chi, ad esempio, non ricorda l’espressione: “Still a better love story than Twilight”?

Da adolescente ho consumato le mie copie per le tante riletture, ricordo ancora quanto adoravo crogiolarmi nella sensazione di malinconia che mi pervadeva leggendo di quell’amore impossibile, la delusione che ho provato con New Moon e le discussioni infinite con le amiche per decretare chi dovesse risultare il vincitore dell’iconico triangolo.

Ripensandoci adesso mi viene da sorridere, ma riconosco comunque il merito all’autrice per essere stata in grado di segnare una generazione.

Midnight sun è, a mio avviso, un’ottima mossa di mercato.

L’uscita di questo libro avrebbe avuto un senso subito dopo Breaking Dawn, come l’autrice avrebbe voluto fare inizialmente. Dopo tutto questo tempo, però, è evidente che le intenzioni sono altre, e cioè irretire, oltre i vecchi seguaci, anche le nuove generazioni per prepararle a nuovi progetti come, per dirne una, la futura uscita di un nuovo libro che tratta della storia di Renesmee (continuo a trovare questo nome orrendo) e Jacob, che Stephenie Meyer ha da poco annunciato.

Per quanto riguarda la trama, è evidente che l’autrice abbia fatto pochi sforzi, minime sono infatti le novità rispetto alla storia originale.

Troviamo, ad esempio, alcune scene inedite di Edward e la sua famiglia, qualche flashback del protagonista e una maggiore cura nella descrizione dei poteri dei Cullen.

È come se il libro facesse costantemente affidamento su Twilight attraverso continui richiami evocativi e quindi tralasciando descrizioni che invece sarebbero potute risultare utili e interessanti per i neofiti.

Appena cominciata la lettura mi è sembrato di ritrovare vecchi amici, rientrare in una specie di comfort zone che avevo dimenticato. Mi è piaciuta la sensazione di riuscire a ricordare alcuni dettagli, di sapere già cosa sarebbe accaduto in seguito.

Però, ben presto, i difetti del libro sono diventati evidenti come un’accecante insegna luminosa nel bel mezzo di un deserto buio, complice forse una maturità diversa, le scene trash e la ripetizione estenuante nei pensieri del protagonista degli stessi concetti, camuffati, torti, rimestati, ma esattamente identici.

Per non parlare della relazione tossica tra i due protagonisti, Bella dipinta costantemente come una specie di governante, sempre pronta ad assecondare ogni umore di Edward e a fare di tutto per compiacerlo. Lui che non fa che ripetere quanto sia buona, gentile e servizievole, facendoti saltare i nervi.

Finire questo libro è stata una vera e propria sfida personale, non trovo parole per descrivere la noia totalizzante che mi ha avvolto, per la prima volta in vita mia ho seriamente rischiato di addormentarmi davanti a un libro.

Non sento di non consigliarne l’acquisto, i pareri in merito sono davvero variegati e probabilmente la mia è solo una voce fuori dal coro, quindi credo sia un esperienza che bisogna fare e registrare personalmente.

Il protagonista indiscusso del libro è il punto di vista di Edward, non lui, non Bella, non la storia d’amore, ma i suoi incessanti ed esacerbanti pensieri. Per le prime è sicuramente interessante comprendere come funziona esattamente il suo potere, scoprire il suo modo di pensare e incastrare i tasselli mancanti negli incontri con Bella.

Da un vampiro centenario però ci si aspetta una maturità diversa di cui si avverte fortemente la mancanza. Sinceramente non riesco a comprendere la scelta dell’autrice di dipingerlo inizialmente come il mostro che dovrebbe essere, poi come un’adolescente costantemente concentrato sulla telenovela che ha luogo nella sua mente per i pensieri dei liceali che lo circondano, poi di nuovo soffocato dalla paura della dannazione e in seguito, all’improvviso, completamente, follemente, innamorato della ragazza che voleva mangiare e che ha stalkerato.

Insomma, bipolare.

Troviamo un Edward insicuro, inedito, che tenta di caricarsi il mondo sulle spalle ma che non fa altro che dimostrarsi fragile e immaturo.

La cosa che più ho detestato, però, sono le scene trash, piazzate lì come se tentassero a tutti i costi di strapparti un sorriso.

In primis, la scena in classe in cui in mezzo secondo, Edward inscena nella sua mente un milione di modi in cui dissanguare Bella e far fuori i testimoni, l’intera classe, il professore di biologia e magari anche qualche malcapitato che avrebbe potuto accorgersi del massacro, organizza la fuga, sceglie i modi perfetti per coprire i delitti, tutto nei minimi dettagli.

Un’altra scena degna di nota è quella in cui, dopo essersi accorto, nella prima gita da stalker notturno, che la finestra della camera di Bella cigola, la volta seguente si premunisce di olio per lubrificarne i cardini.

Edward ed Emmett che si improvvisano wedding planner, la lunghezza esacerbante del capitolo sulla partita di baseball, l’irritante possibilità, sua e di Alice, di prevedere le mosse altrui e di spiegarcele sia prima che quando accadono.

Il posto d’onore di scena trash indiscussa spetta però alla corsa sfrenata in autostrada a Phoenix, il furto della macchina, la previsione dei posti di blocco.

L’immagine, ormai indelebile nella mia mente, di Edward come nuovo Dominic Toretto, e degli altri vampiri immobili come statue mentre vengono sballonzolati nella vettura, è qualcosa che non si può spiegare a parole, ma soltanto leggere.

Nonostante Midnight sun mi abbia lasciata decisamente perplessa, mi auguro di trovare qualcosa di nuovo e fresco nei prossimi libri della Meyer e spero che in quel caso il ritorno a Forks sia più roseo e soddisfacente.

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Recensione: Il circo della notte, Erin Morgenstern

Appare così, senza preavviso. La notizia si diffonde in un lampo, e una folla impaziente già si assiepa davanti ai cancelli, sotto l’insegna in bianco e nero che dice: “Le Cirque des Rèves. Apre al crepuscolo, chiude all’aurora”. È il circo dei sogni, il luogo dove realtà e illusione si fondono e l’umana fantasia dispiega l’infinito ventaglio delle sue possibilità. Un esercito di appassionati lo insegue dovunque per ammirare le sue straordinarie attrazioni: acrobati volanti, contorsioniste, l’albero dei desideri, il giardino di ghiaccio,.. Ma dietro le quinte di questo spettacolo senza precedenti, due misteriosi rivali ingaggiano la loro partita finale, una magica sfida tra due giovani allievi scelti e addestrati all’unico scopo di dimostrare una volta per tutte l’inferiorità dell’avversario. Contro ogni attesa e contro ogni regola, i due giovani si scoprono attratti l’uno dall’altra: l’amore di Marco e Celia è una corrente elettrica che minaccia di travolgere persino il destino, e di distruggere il delicato equilibrio di forze a cui il circo deve la sua stessa esistenza.

Questo spettacolare libro non racchiude tra le sue pagine una semplice storia.

Al contrario, ti fa sentire come se l’autrice ti avesse strappato uno di quei sogni che si fanno poco prima di aprire gli occhi, un momento onirico sfuggente, dai contorni sbiaditi, per poi riconsegnartelo, vivido e vibrante, impresso nelle pagine.

Lo stile di Erin Morgestern è unico, avvolgente, magico, poetico, surreale.

Scoprire questo libro mi ha dato l’impressione di non aver mai letto prima, è un’esperienza totalizzante, impareggiabile, un varco verso un mondo fantastico e visionario.

L’autrice fa del lettore un protagonista, facendogli dono di alcuni capitoli dedicati.

Sfogliando le pagine, all’improvviso ti ritrovi in fila per il Cirque des Rèves a contemplare meravigliato le luci dell’insegna che prende vita, il maestoso e indimenticabile orologio che domina sulla folla, a vagare tra le file di tendoni in bianco e nero, incapace di scegliere in quale entrare, riesci a sentire il profumo dei dolciumi che inonda le strade, e, quando infine arriva l’alba, ti senti pervadere dalla nostalgia per qualcosa che non hai mai visto.

La fantasia dell’autrice è qualcosa di meraviglioso, ha la capacità di riuscire a mescolare atmosfere magiche e oniriche senza mai cadere nel banale o nel ridondante, tanto da convincerti che sia tutto reale.

La narrazione scorre su più piani temporali e prevede diversi filoni apparentemente scollegati, destinati ad intrecciarsi nel finale.

La storia principale si apre con una sfida lanciata da due maghi, Prospero e l’uomo in grigio, da sempre rivali, che vincola i reciproci apprendisti a fronteggiarsi per dimostrare quale tra le loro opposte scuole di pensiero e di insegnamento sulla magia sia la migliore.

In un mondo in cui l’illusionismo la fa da padrona, la magia viene vista come un semplice trucco troppo complesso per essere compreso.

Nei diversi capitoli vediamo Celia e Marco, i due apprendisti, crescere, istruirsi e infine incontrarsi sullo sfondo del Circo, scenario creato appositamente per la loro sfida, dove si fronteggeranno modellando magie straordinarie e, prevedibilmente, finiranno per innamorarsi.

Il secondo filone è incentrato su Bailey, un ragazzo in cerca della propria strada, timoroso per il proprio futuro, che finisce per sentire un richiamo irresistibile per il Circo senza saperne spiegare il motivo, decidendo di seguirlo.

Il Circo è il vero protagonista della storia, scenario ricorrente e incantato che pare prendere vita di notte, i suoi tendoni a strisce bianche e nere sono come portali inter dimensionali, capaci di trasportanti in mondi dove ogni cosa è possibile e anche la fantasia più improbabile può esser soddisfatta.

L’autrice non ci da mai risposte vere e proprie agli interrogativi che sorgono dalla storia, né  descrizioni dettagliate dei personaggi, lasciando all’immaginazione del lettore il compito infausto di colmare queste lacune.

Nonostante abbia amato questo libro, considerandolo una vera e propria scoperta, non posso far a meno di evidenziarne alcuni aspetti negativi, che successivamente ho riscontrato anche nel secondo libro dell’autrice, Il mare senza stelle, del quale spero di parlarvi presto.

Innanzitutto, il finale mi ha lasciata perplessa (evito spoiler per chi non lo avesse letto), con uno strano senso di incompletezza addosso, insoddisfatta, in quanto detesto non avere una visione conclusiva chiara.

In secondo luogo, nonostante il magico disegno complessivo, ho trovato i personaggi e la storia cristallizzati nel tempo e nello spazio, come se si trovassero sigillati sotto una palla di vetro con la neve. Sebbene sia un’idea affascinante per quanto riguarda le atmosfere, lo stesso, a mio avviso, non può dirsi per i personaggi.

La loro caratterizzazione psicologica è immobile, stereotipata, nessuno sembra uscire dalla propria comfort zone, restano intrappolati negli scarni tratti caratteriali attribuiti loro dall’autrice, perdendo di conseguenza di umanità e realismo, non ci sono colpi di scena degni di chiamarsi tale, né una vera e propria crescita interiore, tutto fila liscio come l’olio, sfiorando i margini del paradosso.

Complessivamente però bisogna dire che il Circo della Notte è un libro unico, un sogno ad occhi aperti da non lasciarsi assolutamente sfuggire, e lo stile dell’autrice è qualcosa di raro e prezioso, indimenticabile, capace di ridefinire il concetto di magia.

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“I mostri più spaventosi sono quelli che si nascondono nelle nostre anime.” Edgar Allan Poe

Per ogni nuovo inizio c’è sempre una porta che si chiude alle nostre spalle, una pagina che viene voltata, un capitolo che si conclude e una nuova avventura in attesa di essere intrapresa. L’ignoto ci spalanca i battenti, ci dona scelte, infinite possibilità e anche, perché no, errori nuovi di zecca da commettere.
A chi volesse unirsi a questo viaggio, lasciandosi trasportare in misteriosi universi sconosciuti, do il benvenuto.

Mi chiamo Chiara, ho 26 anni, sono una studentessa universitaria e sono una ragazza che sogna e respira carta e inchiostro. Spero di creare, in questo blog, un luogo dove poter condividere con voi le mie passioni, dove poter scambiare opinioni sui libri e sui temi più disparati. Per presentarmi ho scelto di mostrarvi questo libro spettacolare, che considero il mio vangelo, quello dal quale non potrei mai separarmi.

La scrittura di Edgar Allan Poe mi ha sempre affascinata, i suoi testi sono piccoli tesori oscuri a cui abbandonarsi. Il suo stile intramontabile è caratterizzato da tinte fosche, gotiche, ed è incentrato sull’indagine psicologica. Sviscera temi come la morte, il macabro, il lutto. Delle sue geniali opere traspare il profondo turbamento interiore che da vita alla sua arte, la sublime sensibilità precaria che lo contraddistingue e la sua indiscussa capacità di squarciare il velo che ci separa dal sovrannaturale per riplasmare i contorni della realtà, in cui sono gli uomini i veri mostri.
Oggi viene considerato precursore della letteratura dell’orrore, nonché fonte d’ispirazione per diversi generi letterari. Influenza, ad esempio, l’immaginario di H. P. Lovecraft, Arthur Conan Doyle, Jules Verne e Charles Boudelaire.

Voglio, inoltre, svelarvi il perché di questo bizzarro nome. L’atropa belladonna è una pianta che mi ha sempre incuriosita. Il suo nome deriva dai suoi letali effetti e dall’impiego cosmetico. Atropa, difatti, era il nome greco di una delle tre Moire, le dee del destino, che, nella mitologia greca, taglia il filo della vita, scelto per ricordare che l’ingestione delle bacche della pianta può causare la morte; mentre l’epiteto Belladonna fa riferimento ad una pratica tipica del Rinascimento, le dame utilizzavano il collirio basato su questa pianta per dare lucentezza agli occhi grazie alla sua capacità di dilatare le pupille. Sono proprio le sue molteplici sfaccettature ad avermi fatto pensare: perché no? La piante è in grado di agire sul sistema nervoso, viene usata in medicina, nel campo cosmetico e anche come veleno, può provocare allucinazioni, febbre, deliri. Come tutte le cose belle ha un lato potenzialmente pericoloso, perciò il nome Belladonna a Colazione per me sottintende una scelta. Ogni nuovo giorno comincia con una colazione, sia solo un semplice caffè, un bicchier d’acqua o qualcosa di più complesso. Ogni giorno spetta a noi decidere in che modo approcciarci alla vita, se inghiottire le bacche della belladonna e lasciarci avvelenare dalla negatività, o al contrario, scegliere l’infuso delle sue foglie e trovare la pace.

Spero sia stato piacevole trascorrere questo tempo insieme, e spero torniate a farmi visita!

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