Buonasera lettori! Per festeggiare il primo anno della pagina instagram ho pensato di condividere con voi uno dei primi racconti che ho scritto, con cui ho partecipato a un concorso letterario e a cui sono particolarmente legata.
Titolo: Redenzione Autore: Moccia Chiara
In una fitta e oscura foresta di secolari ed imponenti conifere, tanto estesa che se osservata dall’alto pareva il manto ispido di una mastodontica bestia addormentata, c’era una piccola radura. La radura era un minuscolo squarcio contornato da pini e abeti, c’erano cespugli e rovi che ricoprivano il suolo, e se si sollevava lo sguardo, nelle giornate buone, tra le foglie aghiformi si riusciva a intravedere il lucore dei raggi solari che trapassavano la penombra.
Nel bel mezzo di questo angolo sperduto e solitario c’era una statua di fredda e grigia roccia.
La scultura poggiava su un basamento e raffigurava un uomo, un re, seduto sul suo trono.
Il volto di pietra, austero e perfetto, era incorniciato da riccioli ordinati e da una barba lunga e curata. Gli occhi della statua erano freddi e distanti e sul capo aveva adagiata una corona decorata da pietre preziose. Attorno alle spalle, dritte e rigide, cadeva un lungo mantello le cui pieghe perfette avevano iniziato a corrodersi. Le braccia erano stese in avanti, le mani serrate attorno all’impugnatura di un’imponente spada, la cui lama scendeva tra i piedi della figura per andarsi a conficcare nel basamento.
Non c’era anima viva che ne conoscesse l’ubicazione o i segreti, ma al contrario, anime morte ce n’erano eccome. Spiriti e ombre che continuavano a tramandarsi e a sussurrare nel sottobosco la deplorevole storia del monarca maledetto.
Difatti quella non era affatto una semplice statua di roccia, quella scultura era il re in persona, un uomo spietato, punito da uno stregone per le atrocità di cui si era macchiato in vita.
A causa della maledizione, il suo corpo era stato tramutato nel suo eterno sepolcro e, murato vivo in quella prigione di nuda pietra, il re aveva visto trascorrere impotente dapprima giorni, poi mesi e stagioni, infine intere ere.
Era passato talmente tanto tempo che il re aveva dimenticato il suo stesso nome.
Lo stregone lo maledisse a rivivere ogni notte le barbarie che lui stesso aveva inflitto al suo popolo, la punizione sarebbe cessata soltanto se il re avesse compreso le proprie colpe, ma il suo cuore di pietra era incapace di ravvedersi.
In vita il re aveva commesso i più orridi e abbietti peccati, aveva voltato le spalle al suo popolo, costringendolo alla fame e alla miseria, mandato giovani a morire in suo nome nei campi di battaglia, preteso le vite degli innocenti incapaci di sostenere il prezzo esoso delle sue decime.
Quando il sole cominciava a tramontare aldilà della collina e i contorni della foresta si facevano rubri e dorati, lui non riusciva a vederci la bellezza della natura ma solo sangue, sangue rosso e limpido che doveva essere ancora versato in suo nome. Allora aveva inizio il suo castigo.
Dalle sue mani macchiate di peccato, perpetuamente strette attorno all’elsa della sua amata spada, cominciava a grondare un liquido viscoso e grumoso, nero come l’onta sulla sua anima. Gracchiando venivano i corvi, poggiavano le loro zampe sul cranio di pietra e si sporgevano in avanti per pungergli gli occhi con i loro becchi ricurvi.
Lacrime di sangue gli attraversavano il volto in lugubri rivoli, gli artigli delle creature gli raschiavano la testa e il re gridava, gridava, ma nessuno poteva udirlo.
Quanto la tortura aveva fine, dopo ore di tormento e agonia, i rami degli alberi che circondavano la radura si protendevano verso il cielo e intrecciandosi creavano una cupola di tenebra, quindi giungevano le anime.
La loro carne era simile a fumo evanescente e attraverso di essa si riusciva a intravedere il bianco lattiginoso dei loro scheletri. In fila dinanzi al re, lo accusavano a turno del loro defungere e nonostante tutto il tempo già trascorso non erano mai le stesse.
«Hai ammazzato i miei genitori perché non potevano saldare le tue tasse, erano persone oneste.»
gli disse una notte un bambino, fissandolo con le sue orbite vuote.
«Io sono morto solo qualche giorno dopo, in un vicolo, avevo tanto freddo e tanta fame. Perché non mi hai dato da mangiare grande re?»
I soldati giungevano in gruppo e i loro orribili lamenti squarciavano l’ovatta delle tenebre. Neanche la morte aveva avuto pietà per le loro anime, tanto che erano costretti ad aggrapparsi l’uno l’altro per sostenere le loro membra maciullate e mutilate.
«Ci hai costretti a marciare contro i tuoi nemici ben sapendo che avremmo pagato il prezzo più alto, ignorando i desideri che serbavamo nei nostri cuori, strappandoci alle nostre famiglie. Sei soddisfatto adesso grande re?» gli chiese uno dei soldati mantenendosi le viscere sporgenti con le mani scheletriche.
Quando anche queste sparivano e il cielo si tingeva dei colori rosati dell’alba, una voce possente gli domandava se si fosse finalmente pentito, ma lui orgoglioso e caparbio, non rispondeva mai.
Di giorno i suoi tormenti cambiavano forma, il suo corpo era esposto ai capricci del cielo.
Durante l’estate il sole gli seccava la pelle, lo ustionava e gli seccava la gola, tanto che gli pareva di inghiottire sabbia ad ogni respiro, rantolava e pregava che giungesse rapido il dolce sollievo della morte per portarlo via.
Le piogge autunnali e primaverili lo infradiciavano a tal punto che si sentiva sciogliere come fango, eppure la statua continuava ad esistere immutata.
D’inverno le tormente di neve rendevano la sua pelle livida e rigida, le dita gli si staccavano dagli arti solo per poi ricrescere e cadere nuovamente.
Si ammalava e delirava e allora sognava di essere ancora vivo, ancora potente, ancora il re grande e crudele che era stato. Mai una volta si pentì delle sue azioni, cos’erano in fondo quelle vite comuni in confronto alla sua? Il suo destino era stato scritto nelle stelle come quello dei re suoi antenati, il popolo esisteva solo per servirlo, e un regno aveva bisogno di sangue e ossa, sacrifici, per costruire solide fondamenta.
Egli non aveva mai imparato ad amare il prossimo. In una vita così lontana che adesso sembrava non appartenergli più, aveva conosciuto soltanto il desiderio, l’ossessione per il denaro e il potere, la smania per la fastosità e la grandiosità che spettavano per legge divina al suo reame.
Delle volte la brama di vendetta verso lo stregone sciamava, allora la sua mente si perdeva in remoti ricordi. Abiti lussuosi di pesante broccato, l’oro lucido della sua corona che prendeva vita sotto le luci tremule dei candelabri, i sudditi che si inchinavano al suo passaggio intimoriti, i lauti e profumati banchetti che si concedeva, il brivido di piacere che gli attraversava il corpo quando condannava un traditore a penzolare dal cappio.
Con quelle immagini inebrianti che gli scorrevano nella mente, il re credeva che avrebbe potuto davvero passare l’eternità laggiù, avrebbe potuto persino sopportare in eterno le lagnanze di quelle sudicie ombre, l’affronto del loro ciarlare senza nemmeno abbassare lo sguardo in sua presenza. Ma il re non aveva fatto ancora i conti col destino, che tanto osannava.
In un giorno soleggiato, in cui un vento fresco e leggero faceva ondeggiare le cime degli alti alberi sempreverdi, gli uccelli cantavano tra i rami e le foglie cadute scricchiolavano sotto le zampe leste di volpi e lupi grigi, una figura apparve al limitare della radura.
Entrò nel cono di luce guardandosi attorno con un’aria spaesata e miserabile, guardinga.
Indossava vesti logore, sulla testa aveva un intrico di capelli che parevano un nido e un cestino sottobraccio carico di frutti violacei, del sottobosco.
L’attenzione del re si concentrò sulla ragazza, il primo essere umano che incontrava da secoli, gridò a perdifiato, ordinandole di aiutarlo ma ovviamente quella non lo udì.
Quando notò la statua, il volto della ragazza si aprì in un’espressione di puro stupore.
Posò il cesto a terra e corse verso la scultura inquietante, tanto perfetta da sembrare viva, salì il gradino del basamento e si piegò in una sfacciata riverenza.
«Sua maestà!» ridacchiò facendo roteare le sottane stracciate.
Il re ruggì inutilmente per l’affronto, disgustato. Come osava rivolgersi a lui a quel modo?
La osservò meglio, aveva le labbra inzaccherate dal succo rosso dei frutti, il volto coperto dalla polvere e le disgustose mani callose di chi aveva bisogno di lavorare per vivere.
Gli occhi grigi erano vispi e avidi, i capelli erano neri come il carbone e la sua figura era esile e magra come un inutile chiodo.
La ragazza, dal canto suo, ammirò la bellezza straordinaria di quella che pareva un’opera ma che in realtà era un uomo, ne accarezzò i lineamenti spigolosi, studiò l’espressione algida e severa del volto e ne restò profondamente impressionata. Restò a contemplarla in silenzio mentre il re la omaggiava tacitamente dei più gravi e spregevoli insulti.
«Stracciona!» gridava. «Vattene!»
E poco dopo quella lo fece davvero, gli diede le spalle e sparì nel folto della foresta.
Quel giorno qualcosa cambiò nel re, mentre, come sempre, i corvi gli cavavano i bulbi oculari dalle orbite, e le anime gemevano e ululavano il proprio dolore, e dalle mani gli colava il sangue rappreso di coloro che aveva ucciso, si sentì solo e misero per la prima volta.
Il giorno seguente si trovò a sperare che quella creatura indegna tornasse, ma le sue aspettative vennero deluse.
All’improvviso avvertiva di nuovo il pruriginoso desiderio di tornare uomo per poter gridare finalmente i suoi pensieri ed essere udito, per sentire ancora l’impugnatura ruvida della sua spada tra i polpastrelli, i sapori esplodergli in bocca e la dolce carezza del vento inondargli i sensi.
La ragazza fece ritorno soltanto dopo tre interminabili giornate, con un secchio di legno ricolmo d’acqua sulle spalle e un sorriso che le illuminava il volto sudicio.
Che cosa avesse poi da essere tanto felice una creatura tanto disgraziata, il re non lo capiva.
Si arrampicò nuovamente sul basamento di roccia e prese a strappare via i rovi e i rampicanti che nel tempo lo avevano ricoperto, poi usò l’acqua per lavare via i rigagnoli rossi e neri dal suo volto e dalle mani.
«Se soltanto fossi vero…» cominciò a dire e prese a raccontargli la storia della sua miserabile vita come se fosse il suo più vecchio e caro amico.
Veniva da un piccolo villaggio al limitare della foresta, viveva in un tugurio che era una stanza con suo padre, padre che era in fin di vita a causa di una brutta malattia che lo costringeva a letto e che lo faceva tossire rosso, da allora era obbligata ad avventurarsi nella foresta per cercare frutta e radici da vendere al mercato perché se non fosse riuscita a racimolare abbastanza denaro il nuovo monarca avrebbe preteso le loro teste.
Il re pensò che certe cose non cambiavano mai mentre la ascoltava, non provò pietà, quella era la realtà e al destino non c’era via di scampo.
«Ho paura di ciò che sarò costretta a fare per sopravvivere.» disse infine, con gli occhi che si facevano lucidi come specchi.
«Se solo fossi reale mio re, mi salveresti?»
Il re la osservò dargli nuovamente le spalle e sparire nella boscaglia.
«Aspetta!» avrebbe voluto gridare. «Non lasciarmi qui a marcire!»
Quando quella notte la voce gli domandò se si fosse ravveduto il re finalmente rispose.
«Mi pento!» ruggì in tono disperato, ma quella gli intimò duramente di non mentire.
La nuova sensazione di malessere del re crebbe sempre di più con l’aumentare delle visite della ragazza, che desiderava soltanto bearsi della magnificenza della scultura, e la situazione proseguì per così tanto che alla fine il re la vide diventare donna sotto il suo sguardo.
Lei aprì il suo cuore alla statua di roccia, gli rivelò i suoi sogni, le sue ambizioni e i suoi peccati. Pianse contro il suo petto granitico quando la malattia le strappò via il padre, implorò il suo aiuto, sognando che fosse reale e che potesse donarle tutto il denaro del regno.
«Mio re, mio salvatore.» Gli ripeteva. «Se solo fossi reale!»
Divenne sempre più emaciata e gracile, gli occhi le divennero sporgenti e i suoi movimenti si fecero lenti e deboli.
Il re finì per affezionarsi a quella creatura, al suono musicale della sua voce, al suo viso sporco e alle sue mani che non smettevamo mai di curare il suo involucro maledetto.
Lei gli ricordava che apparteneva ancora al mondo dei vivi, che non tutto era perduto.
Il re allora prese a rispondere ogni notte alla domanda della possente voce, ma quella continuò a schernirlo perché non diceva il vero.
Una nuova paura crebbe in lui, sapeva che se non fosse riuscito a liberarsi da quel castigo la ragazza sarebbe morta di fame, proprio lì, ai suoi piedi, e che dunque sarebbe stato costretto a vedere il suo corpo minuto putrefarsi per l’eternità.
«Quanto vorrei che fossi reale mio re.» gli diceva sorridendo. «Quanto ti amerei se tu lo fossi, anche se non so come potrei amarti più di quanto non faccia già.»
Il re, che non conosceva l’amore, non riusciva a comprendere i sentimenti che lei provava.
Il suo era soltanto un desiderio egoistico, era terrorizzato all’idea della solitudine e per questo avrebbe fatto di tutto, persino aiutare quella povera stracciona miserabile.
Lei al contrario, l’amava davvero, o meglio amava l’idea di lui.
Fantasticava sull’uomo rappresentato dalla statua, ci vedeva un re giusto e compassionevole, un eroe valoroso degno delle migliori lodi, l’uomo dal cuore puro che l’avrebbe salvata.
Un giorno la donna prese coraggio e si arrampicò sul basamento.
Si aggrappò ai braccioli dello scranno e premette le labbra morbide contro quelle fredde e dure della statua. Restò in attesa di un segno, sperando che accadesse qualcosa, e alla fine udì un suono cupo, simile a un tonfo.
Tump, tump.
Qualcosa si agitava all’interno del busto della scultura, la ragazza fece un sorriso scaltro e disse: «Forse puoi davvero salvarmi mio re di roccia.»
Incredibilmente il suo cuore marcio aveva ripreso a battere, l’involucro di roccia gli stava improvvisamente stretto, lo sentiva creparsi e sussultare come se stesse per cedere.
Il re credette che era stato l’amore di quella sprovveduta a salvarlo. Attese impaziente la notte e sopportò le torture come non aveva mai fatto prima, carico di aspettative e speranza.
Quando arrivò il momento disse alla voce, «Liberami! Non sono più tuo prigioniero!»
Quella gli chiese lo stesso se si fosse pentito ma il re mentì di nuovo.
«La maledizione può essere spezzata solo attraverso la redenzione! Vai incontro alla mano del destino grande re!» tuonò e lo lasciò com’era.
La mattina seguente la donna tornò stringendo tra le mani un piccone. Mentre si avvicinava cauta alla statua, il re notò in lei qualcosa di diverso, un luccichio bramoso negli occhi.
«E pensare che ho avuto la risposta sotto agli occhi per così tanto!» disse felice.
Il re credette che la donna avesse trovato il modo per liberarlo e attese fiducioso.
Il primo colpo gli squarciò il petto, la fitta di dolore lo attraversò per tutto il corpo, urlò per il raccapriccio. La donna spazzò via le schegge di roccia e si preparò a colpire nuovamente.
Per così tanto aveva amato quella statua che distruggerla le procurava una profonda malinconia, un dolore quasi fisico, ma aveva bisogno di sapere se davvero celava delle ricchezze come credeva, se nascondeva un tesoro al suo interno.
Il secondo colpo andò più affondo, il piccone si portò dietro un pezzo di roccia, lei allora udì un grido, ma pensò che si trattasse degli animali che infestavano la foresta.
Colpì nuovamente e l’arma affondò in qualcosa di morbido, improvvisamente un liquido scarlatto e viscoso prese a uscire dal foro. La donna gridò e gettò via il piccone.
La statua divenne uomo, il re si accasciò sul trono annaspando, una mano premuta sullo squarcio nel petto. Guardò la donna, ma quella aveva occhi solo per l’oro della sua corona che avrebbe potuto salvarla dalla miseria.
Boccheggiando, spalancò la bocca per implorare pietà, ma lei non gliene diede il tempo, afferrò l’attrezzo e tra le lacrime glielo conficcò nel cuore.
Con mani tremanti gli sfilò la corona dalla testa, la strinse a sé, le si aggrappò, per poi dargli le spalle e andare incontro a un destino migliore.